Chiamiamole urla del silenzio.
Se dal nostro desco natalizio potessero levarsi
le voci degli animali morti per foraggiare le nostre festevoli abbuffate, il risultato
sarebbe un coro orrorifico e dantesco, che forse toglierebbe l'appetito a più d'uno.
Proviamo ad ascoltarlo, per una volta.
Se le sofferenze delle oche che hanno prodotto il
foie gras potessero diventare un film, sarebbe un pulp dei più truculenti. Il fegato
grasso, infatti, altro non è che l'organo malato di animali torturati. Si chiama steatosi
epatica la patologia indotta nelle oche da una superalimentazione forzata. Per ottenerla
bisogna ingozzarle per un periodo che va dalle 2 alle 4 settimane con una quantità
giornaliera di cibo pari ad un quarto del loro peso.
E' come se ogni giorno un uomo di 80 chili fosse
costretto a ingurgitarne 20 di spaghetti. Come? Con un imbuto alimentato da un motore
elettrico, collegato a un tubo metallico infilato nell'esofago. Che produce lesioni,
soffocamenti e fratture del collo. Il tutto in uno spazio di 3 metri quadri nel quale sono
ammassati 20 animali. Per evitare che si feriscano tra loro, gli vengono tagliate le
unghie e il becco, cosa che assicura loro altre sofferenze fino alla morte.
Morte benigna, date le circostanze? Macchè.
Tanto per cominciare, sul nastro trasportatore che le conduce al patibolo le oche vedono
tutto ciò che le aspetta. Ovvero: l'immersione in un bagno d'acqua elettrificata seguito
dallo sgozzamento, al quale però spesso giungono ancora vive. Solo il 5-10 per cento di
loro ha la buona sorte di morire a causa dello spappolamento del fegato. O di stress.
Le femmine sono più fortunate: poiché il loro
peso corporeo è inferiore a quello del maschio, dopo le covate vengono buttate vive in un
tritacarne o soffocate in enormi sacchi. Per rifornire di foie gras il solo mercato
italiano, nel '96 questo martirio è toccato a 25mila oche.
Ma non finisce qui.
Contrariamente alle immagini bucoliche che ci
propina la pubblicità, zamponi, salmoni, lumache, arrosti e ripieni natalizi provengono
(come il 90 per cento dei prodotti animali che approdano alla nostra tavola) da
allevamenti intensivi.
Per miliardi di animali, queste due parole si
traducono in una lunga agonia. Il denominatore comune è la concentrazione di molti
individui in uno spazio estremamente ristretto, in ambienti incompatibili con le loro
esigenze fisiologiche, con un'alimentazione finalizzata alla massima produzione nel più
breve tempo possibile. Il tutto scandito da una regola non scritta: «Più sono piccoli e
più sono maltrattati» sintetizza Enrico Moriconi, dirigente sanitario e presidente
dell'Associazione culturale veterinaria di salute pubblica, nonchè membro del comitato
scientifico della Società vegetariana.
Animali da reddito.
Ritte giorno e notte su griglie metalliche per lo
smaltimento delle feci, con le zampe ferite e infette, le galline ovaiole trascorrono la
loro esistenza produttiva confinate in uno spazio equivalente ad un foglio dattiloscritto.
Ma anche un allevamento di scrofe è una visione
da horror: un capannone occupato da un intrico di tubi sotto i quali si intravedono le
bestie, costrette per 18 dei 24 mesi che costituiscono la loro vita in gabbie che le
fasciano lungo tutto il corpo impedendo il minimo movimento. Per evitare che, nella follia
da stress, divorino orecchie e coda delle vicine, vengono sdentate con attrezzi da
officina.
Nella realtà extrapubblicitaria anche i
vitellini degli spot hanno a disposizione solo uno spazio di 60 centimetri, che li
costringe a dormire con le zampe raggomitolate. perché le carni si mantengano bianche
vengono resi scientificamente anemici. E solo dopo 6 mesi di calvario arrivano al macello,
spesso con le zampe legate fra loro perché il sovrappeso li rende incapaci di camminare e
le fratture deprezzerebbero la pregiata muscolatura della coscia.
Un supplizio che, per legge, resterà immutato
più o meno per altri 10 anni.
Queste tecniche da lager sono perfettamente
legali.
Ma è proprio impossibile conciliare
produttività e minore crudeltà per gli animali? «Il Pil della zootecnia italiana è di
25mila miliardi l'anno. Un business di immenso profitto, sempre più in mano a pochi. Che,
va da sè, osteggiano ogni modifica per timore di perdere concorrenzialità», dice
Moriconi. Lo scenario si fa ancora più cupo passando dalla teoria alla pratica.
«Anzichè darsi regole più restrittive, l'ordinamento italiano ha scelto la via del
controllo, che come sempre succede si traduce in controllo mancato. Basti dire che 5000
veterinari pubblici, affiancati dai Nas, dovrebbero vigilare su 700 milioni di animali
macellati ogni anno e su 12 milioni di tonnellate di mangimi».
Un esempio per tutti, quello dei mattatoi, «sul
cui orrore tutta la società moderna si basa», per citare il Nobel Elias Canetti. La
macellazione a norma di legge prevede un atto preliminare che causa la perdita di
conoscenza, con biossido di carbonio o scariche elettriche. «Ma c'è la piaga dei macelli
in deroga, che possono usufruire di proroghe continue per perpetuare uccisioni non a
norma» segnala Moriconi. «E ci sono mattatoi dai quali transitano anche 2000 suini in
una mattina. Quando gli inservienti gli applicano le pinze elettriche, non possono certo
guardare troppo per il sottile.
Così, spesso gli animali finiscono ancora vivi
nelle vasche di scottatura, dalle quali devono passare perché siano tolte loro le
setole». Ma ben altri interessi, al di là dell'etica, sono in ballo quando si parla di
alleviare il dolore degli animali da allevamento. Sia perché l'animale che soffre produce
meno e peggio, sia perché le normative internazionali cominciano a imporre sofferenza
più miti'. E soprattutto perché le tecniche utilizzate si ripercuotono in modo
drammatico sulla salute umana. «L'unica soluzione è un nuovo patto di mercato fra
allevatore e consumatore» dice Moriconi. «Dobbiamo rassegnarci a pagare di più per
mangiare meno. Ma meglio. Rispetto a 20 anni fa, oggi il cibo ci costa la metà. Bisogna
accettare l'idea che è possibile solo a patto che sul mercato ci siano anche alimenti
pericolosi».
(3 - fine. Le precedenti puntate sono state
pubblicate il 7 e 8 dicembre). Nelle foto: allevamenti intensivi di bovini, suini e
pollame |