Da "Il Giorno.it" del 13 dicembre 1999

ANIMALI

A NATALE FACCIAMO FESTA
SULLA LORO PELLE

Allevamenti intensivi simili a gironi danteschi:
da lì proviene il 90 per cento
dei prodotti che portiamo in tavola

 

di Tiziana Abate

 


Chiamiamole urla del silenzio.

Se dal nostro desco natalizio potessero levarsi le voci degli animali morti per foraggiare le nostre festevoli abbuffate, il risultato sarebbe un coro orrorifico e dantesco, che forse toglierebbe l'appetito a più d'uno. Proviamo ad ascoltarlo, per una volta.

Se le sofferenze delle oche che hanno prodotto il foie gras potessero diventare un film, sarebbe un pulp dei più truculenti. Il fegato grasso, infatti, altro non è che l'organo malato di animali torturati. Si chiama steatosi epatica la patologia indotta nelle oche da una superalimentazione forzata. Per ottenerla bisogna ingozzarle per un periodo che va dalle 2 alle 4 settimane con una quantità giornaliera di cibo pari ad un quarto del loro peso.

E' come se ogni giorno un uomo di 80 chili fosse costretto a ingurgitarne 20 di spaghetti. Come? Con un imbuto alimentato da un motore elettrico, collegato a un tubo metallico infilato nell'esofago. Che produce lesioni, soffocamenti e fratture del collo. Il tutto in uno spazio di 3 metri quadri nel quale sono ammassati 20 animali. Per evitare che si feriscano tra loro, gli vengono tagliate le unghie e il becco, cosa che assicura loro altre sofferenze fino alla morte.

Morte benigna, date le circostanze? Macchè. Tanto per cominciare, sul nastro trasportatore che le conduce al patibolo le oche vedono tutto ciò che le aspetta. Ovvero: l'immersione in un bagno d'acqua elettrificata seguito dallo sgozzamento, al quale però spesso giungono ancora vive. Solo il 5-10 per cento di loro ha la buona sorte di morire a causa dello spappolamento del fegato. O di stress.

Le femmine sono più fortunate: poiché il loro peso corporeo è inferiore a quello del maschio, dopo le covate vengono buttate vive in un tritacarne o soffocate in enormi sacchi. Per rifornire di foie gras il solo mercato italiano, nel '96 questo martirio è toccato a 25mila oche.

Ma non finisce qui.

Contrariamente alle immagini bucoliche che ci propina la pubblicità, zamponi, salmoni, lumache, arrosti e ripieni natalizi provengono (come il 90 per cento dei prodotti animali che approdano alla nostra tavola) da allevamenti intensivi.

Per miliardi di animali, queste due parole si traducono in una lunga agonia. Il denominatore comune è la concentrazione di molti individui in uno spazio estremamente ristretto, in ambienti incompatibili con le loro esigenze fisiologiche, con un'alimentazione finalizzata alla massima produzione nel più breve tempo possibile. Il tutto scandito da una regola non scritta: «Più sono piccoli e più sono maltrattati» sintetizza Enrico Moriconi, dirigente sanitario e presidente dell'Associazione culturale veterinaria di salute pubblica, nonchè membro del comitato scientifico della Società vegetariana.

Animali da reddito.

Ritte giorno e notte su griglie metalliche per lo smaltimento delle feci, con le zampe ferite e infette, le galline ovaiole trascorrono la loro esistenza produttiva confinate in uno spazio equivalente ad un foglio dattiloscritto.

Ma anche un allevamento di scrofe è una visione da horror: un capannone occupato da un intrico di tubi sotto i quali si intravedono le bestie, costrette per 18 dei 24 mesi che costituiscono la loro vita in gabbie che le fasciano lungo tutto il corpo impedendo il minimo movimento. Per evitare che, nella follia da stress, divorino orecchie e coda delle vicine, vengono sdentate con attrezzi da officina.

Nella realtà extrapubblicitaria anche i vitellini degli spot hanno a disposizione solo uno spazio di 60 centimetri, che li costringe a dormire con le zampe raggomitolate. perché le carni si mantengano bianche vengono resi scientificamente anemici. E solo dopo 6 mesi di calvario arrivano al macello, spesso con le zampe legate fra loro perché il sovrappeso li rende incapaci di camminare e le fratture deprezzerebbero la pregiata muscolatura della coscia.

Un supplizio che, per legge, resterà immutato più o meno per altri 10 anni.

Queste tecniche da lager sono perfettamente legali.

Ma è proprio impossibile conciliare produttività e minore crudeltà per gli animali? «Il Pil della zootecnia italiana è di 25mila miliardi l'anno. Un business di immenso profitto, sempre più in mano a pochi. Che, va da sè, osteggiano ogni modifica per timore di perdere concorrenzialità», dice Moriconi. Lo scenario si fa ancora più cupo passando dalla teoria alla pratica. «Anzichè darsi regole più restrittive, l'ordinamento italiano ha scelto la via del controllo, che come sempre succede si traduce in controllo mancato. Basti dire che 5000 veterinari pubblici, affiancati dai Nas, dovrebbero vigilare su 700 milioni di animali macellati ogni anno e su 12 milioni di tonnellate di mangimi».

Un esempio per tutti, quello dei mattatoi, «sul cui orrore tutta la società moderna si basa», per citare il Nobel Elias Canetti. La macellazione a norma di legge prevede un atto preliminare che causa la perdita di conoscenza, con biossido di carbonio o scariche elettriche. «Ma c'è la piaga dei macelli in deroga, che possono usufruire di proroghe continue per perpetuare uccisioni non a norma» segnala Moriconi. «E ci sono mattatoi dai quali transitano anche 2000 suini in una mattina. Quando gli inservienti gli applicano le pinze elettriche, non possono certo guardare troppo per il sottile.

Così, spesso gli animali finiscono ancora vivi nelle vasche di scottatura, dalle quali devono passare perché siano tolte loro le setole». Ma ben altri interessi, al di là dell'etica, sono in ballo quando si parla di alleviare il dolore degli animali da allevamento. Sia perché l'animale che soffre produce meno e peggio, sia perché le normative internazionali cominciano a imporre sofferenza più miti'. E soprattutto perché le tecniche utilizzate si ripercuotono in modo drammatico sulla salute umana. «L'unica soluzione è un nuovo patto di mercato fra allevatore e consumatore» dice Moriconi. «Dobbiamo rassegnarci a pagare di più per mangiare meno. Ma meglio. Rispetto a 20 anni fa, oggi il cibo ci costa la metà. Bisogna accettare l'idea che è possibile solo a patto che sul mercato ci siano anche alimenti pericolosi».

(3 - fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 7 e 8 dicembre). Nelle foto: allevamenti intensivi di bovini, suini e pollame