Se lo dice il Financial Times
28 Aprile 2007 - rubrica "terraterra"
E' uno dei tanti business «verdi»: i crediti di carbonio. La corsa di aziende e individui verso un look verde costa milioni di dollari ma i progetti messi in campo quasi sempre hanno benefici ambientali scarsissimi o inesistenti. C'è chi paga molto per una riduzione di emissioni di gas serra che nei fatti non avviene. E poi ci sono gli ecofurbi che con il meccanismo delle compensazioni fanno grandi profitti sulla disgrazia climatica planetaria. Lo rivela una recente indagine del Financial Times L'offerta di progetti che permettano di diventare «neutri dal punto di vista del carbonio» è rampante. Il mercato «ufficiale» dei crediti di carbonio dovrebbe raddoppiare in pochi anni superando i 68 miliardi di dollari nel 2010, mentre salirebbe a 4 miliardi il settore volontario non regolamentato (tipo «per ogni tot chilometri che percorri in aereo, pagaci un tot e piantiamo tot alberi da qualche parte»). Ma cos'ha trovato l'indagine del quotidiano finanziario? Intanto, che la maggior parte delle organizzazioni e degli individui acquistano crediti senza valore che non portano ad alcuna riduzione delle emissioni di gas serra. Poi che diverse industrie guadagnano tanto facendo poco, o acquisiscono crediti di carbonio sulla base di guadagni nel settore dell'efficienza energetica; interventi dunque che già sono benefici dal punto di vista economico. Poi che il settore pullula di intermediari fornitori di servizi inutili. E in mancanza di verifiche, risulta difficile per i compratori calcolare il valore effettivo dei crediti di carbonio. Francis Sullivan, consigliere per l'ambiente della grande banca inglese Hsbc dichiaratasi «carbon neutral» nel 2005, ha studiato il mercato della compensazione delle emissioni per molti mesi e francamente lo ritiene «poco credibile». Tanto che si augura l'intervento di organi di polizia e squadre antifrode e la messa a punto di standard precisi. La banca in questione ha ignorato il mercato dei crediti di carbonio e ha deciso di finanziare direttamente progetti di riduzione delle emissioni. Alcune compagnie arrivano a proporre ai propri consumatori «ecologicamente sensibili»: pagateci e compenserete i gas serra prodotti dai vostri stili di vita. Per esempio la DuPont, multinazionale della chimica, invita i consumatori a pagare 4 dollari per eliminare una tonnellata di anidride carbonica dal suo impianto nel Kentucky che produce un potente gas serra chiamato Hfc-23. Una richiesta invero onerosa, perché le attrezzature necessarie per abbattere la CO2 sono relativamente poco costose. DuPont ha rifiutato di commentare e di fornire cifre sui guadagni relativi al progetto, sostenendo che è ancora un fase di discussione. Il quotidiano finanziario ha anche trovato esempi di compagnie che si propongono come abbattitrici di carbonio senza avere un'idea chiara di come operano i mercati. E poi c'è Blue Source, una compagnia statunitense, che invita i consumatori a compensare le emissioni investendo nelle attività di recupero petrolio: si pompa anidride carbonica nei pozzi esauriti per tirarne su il petrolio residuo. Ma la stessa compagnia ha affermato che, a causa dei prezzi elevati del petrolio, questo processo è spesso redditizio di suo; gli operatori dunque guadagnano due volte, se in più vendono i crediti di carbonio per seppellire il carbonio stesso. Non c'è nulla di illegale in queste pratiche, sostiene il Ft. Ma alcune compagnie che pure cercano di compensare le emissioni, evitano questi progetti perché sono i loro stessi consumatori a trovarli poco trasparenti. Così, la Bp ha affermato che non intende acquistare crediti che derivino dai miglioramenti nell'efficienza produttiva né da progetti di energia rinnovabile nel paesi sviluppati. Niente paura, però: è apertissima la caccia alle compensazioni «fuori sede». Ci si può pulire per bene finanziando progetti «puliti» per i cari poveri del Sud del mondo. Progetti come piantagioni industriali monocolturali, grandi dighe, forse gli agrocarburanti...
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