L’Europa, che passa per uno degli attori più impegnati sul fronte del clima in realtà non sta facendo abbastanza. I suoi obiettivi sulle emissioni sono inadeguati e “non imbrogliano l’atmosfera”. Mentre oggi a Brussel i leader europei si riuniscono per cercare di decidere dei punti da portare al tavolo di Copenahgen, Greenpeace dice la sua sull’impegno europeo per il clima.
Ieri a Roma l’associazione ambientalista aveva messo in piedi
una delle sue iniziative di grande impatto visivo per attirare l’attenzione sul problema. Una serie di fumetti collocati accanto alle statue dei grandi personaggi storici sparse per la capitale: i grandi del passato lanciano messaggi sul clima al premier italiano. A Berlusconi (che causa motivi di salute non sarà a Brussel oggi) anche una lettera (
pdf): “l’Europa vuole un accordo globale per fare del mondo un luogo più sicuro per milioni di persone e per l’ambiente, o preferisce assistere passivamente al concretizzarsi di un disastro climatico dalle ripercussioni catastrofiche?”
Ma, al di là dell’iniziativa, le critiche agli obiettivi europei mosse da Greenpeace (raccolte in una sintesi che alleghiamo) meritano di essere spiegate. La riduzione delle emissioni del 20% rispetto ai livelli del 1990 - secondo l’associazione – è assolutamente
inadeguata rispetto a quello che chiede la comunità scientifica: un obiettivo troppo basso e nel quale
la riduzione effettiva non corrisponde a quella annunciata. Al 2020 l’Europa dovrebbe invece ridurre la CO2 del 40% rispetto ai livelli del 1990 e farlo veramente.
Dietro all’obiettivo del -20% al 2020 infatti – denuncia Greenpeace - si nasconde uno scenario che si scosta pochissimo dal business-as-usual. A imbrogliare le carte innanzitutto
la baseline considerata, cioè il livello delle emissioni nel 1990: da allora ad adesso, complice il crollo del blocco sovietico, le emissioni dell’UE sono già calate del 10,7%. Se si aggiungono le riduzioni della CO2 causate dal rallentamento economico il cammino da fare per l’Ue verso il -20% è molto più corto di quello che sembra.
A indebolire ulteriormente l’obiettivo altre due possibilità previste dagli impegni europei: il ricorso ai
meccanismi internazionali di compensazione e la possibilità di conteggiare nelle riduzioni nazionali per il post-Kyoto la CO2 risparmiata rispetto alle quote assegnate per il 2012. Grazie ai meccanismi di compensazione infatti di quei 20 punti percentuali ben 4 potrebbero non tradursi in riduzioni effettive nel vecchio continente, ma essere “dati in outsourcing” ai paesi in via di sviluppo. Con la possibilità per le varie nazioni di utilizzare anche per il periodo 2013 – 2020
i crediti risparmiati dalle quote assegnate per il 2012 (gli Assigned Amount Units, AAUs) poi l’obiettivo europeo diverrebbe ancora più vuoto: bisogna pensare che paesi come dell’est come Polonia, Russia, Ungheria e Ucraina hanno accumulato grandi quantità di questi crediti: dunque dovrebbero tagliare poco o niente dal 2013 al 2020 e potrebbero addirittura vendere ad altri questi permessi ad emettere.
Insomma il -20% rispetto al 1990 al 2020 in realtà è gonfiato da “vendite di aria calda”. Vendite che purtroppo – sottolinea l’associazione -
non imbrogliano il clima. Per stare sotto i 2°C di aumento rispetto al periodo preindustriale l’IPCC nel 2007 ha raccomandato che i paesi ricchi al 2020 taglino le emissioni dal 25 al 40% rispetto ai livelli del 1990. A settembre di quest’anno un gruppo di 40 climatologi di fama mondiale ha rettificato, indicando di
ridurre almeno del 40% (
vedi documento, pdf). “La situazione – conclude Greenpeace – è così seria che se i più grandi emettitori continuano a con il business-as-usual pagando gli altri per ridurre le emissioni non riusciremo ad evitare gli effetti peggiori del global warming”: occorre che l’Europa al 2020 riduca del 40% i gas serra rispetto al 1990 e che almeno tre quarti di questa riduzione sia fatta in casa e bisogna eliminare la possibilità di utilizzare le quote di emissione risparmiate da Kyoto.
GM
29 ottobre 2009