Sabato, infatti, dal meeting delle nazioni dell’Asia-Pacifico (Apec), cui hanno partecipato Usa e Cina, è arrivato
l’annuncio ufficiale di quello che oramai si era capito:
a Copenhagen non si punterà più ad un accordo su quanto e come ridurre le emissioni; a 22 giorni dall’atteso vertice i negoziati sono ancora in stallo e dunque l’incontro non sarà che un primo passo verso decisioni che di fatto saranno posticipate.
I tempi della diplomazia internazionale, insomma, si confermano troppo lunghi rispetto a quelli dei cambiamenti climatici, che la scienza ci mostra essere sempre più rapidi. Ma anche la
recessione economica - spiega il report dell’Università di Leeds – è solo un falso alleato nella lotta al global warming. Il lavoro degli economisti di Leeds trova che
il rallentamento economico farà calare i gas serra più di quello che si era stimato finora: al 2012, assumendo che gli investimenti nel low carbon continuino al ritmo pre-crisi, cosa niente affatto scontata, spiegano gli autori stessi, i gas serra sarebbero
il 9% in meno di quello che avverrebbe in un'ipotesi di economia senza crisi. Ma la riduzione immediata delle emissioni dovuta alla recessione, per quanto sostanziosa, senza decisioni che modifichino il sistema energetico resta trascurabile.
Supponiamo che la crisi faccia calare le emissioni del 9%, dice lo studio; questo, significa solo
posticipare di 21 mesi il raggiungimento dei fatidici 2 gradi di riscaldamento del pianeta rispetto ai livelli preindustriali, cioè la soglia oltre la quale il cambiamento climatico diventa più pericoloso. Anche immaginando una crisi ecoomica devastante, come quella dell’inizio degli anni 30, capace di che produrre un calo delle emissioni del 23%, il raggiungimento della soglia sarebbe spostato in avanti di appena 5 anni.
Il rallentamento economico aiuta indubbiamente a ridurre le emissioni (secondo lo studio senza i periodi di stagnazione e recessione occorsi dal dopoguerra le emissioni adesso sarebbero del 50% superiori), ma non bisogna sottovalutare alcune conseguenze della crisi che fanno sì che con la ripresa la crescita delle emissioni di gas serra potrà essere più rapida di prima. Basti pensare al
prezzo della CO2 sceso dai 30 euro a tonnellata dell’estate 2008 agli attuali 13, o al
petrolio che, ora in leggero rialzo, è sceso nei mesi scorsi anche sotto i 40 dollari al barile (Qualenergia.it
"Mercati").
Una delle conseguenze della crisi economica che sul lungo termine porterà ad un aumento delle emissioni, infatti, è legata agli attuali bassi prezzi dell’energia e della CO2 che stanno penalizzando gli investimenti in efficienza energetica e rinnovabili.
A questo si aggiunga che questi investimenti risentono pesantemente anche della
stretta del credito e dal fatto che non sono stati sostenuti adeguatamente dai piani di rilancio pubblici. La maggior parte delle risorse dei vari
piani anticrisi o di stimolo, infatti, resta destinata ad aumentare i consumi e a sostenere i settori tradizionali, compresi quelli ad alta intensità energetica: quasi nessun paese ha investito nel low-carbon almeno l’1% del Pil, come raccomandato dall’UNEP (Qualenergia.it “
L’effetto boomerang dei piani anticrisi”).
Insomma da quanto emerge dal rapporto dell'Università di Leeds, la crisi, non è che un velo temporaneo steso davanti al problema: fa calare le emissioni sul breve periodo e fa sembrare più facile raggiungere gli obiettivi sul clima, ma se non viene usata per
rivoluzionare il sistema energetico può diventare anche molto controproducente sul lungo termine. La politica, dunque, non può usare la recessione come scusa per posticipare le decisioni. Questo è il momento di agire seriamente, ma le ultime notizie dall'Asia fanno intendere che gli interessi industriali e commerciali vengono prima di tutto.