Perché non si combatte l’effetto serra
Dunque: da una parte il probabile riscaldamento del pianeta a causa della produzione da parte dell’uomo di quantità sempre maggiori di gas serra viene indicato come il più devastante problema ambientale dei prossimi decenni. Dall’altra le misure prese per fronteggiarlo appaiono assolutamente timide ed insufficienti. Perché? Dove sta il problema? Si tratta di ipocrisia, di viltà , di prudenza, di mancanza di coerenza o di qualche cosa d’altro?
Nel linguaggio comune si parla di guerra all’effetto serra: ma chiunque combatte una guerra con ben altra determinazione. Quindi la ragione di questa timidezza deve stare da qualche altra parte. E deve avere, come tutte le cose, un fondamento razionale, che forse è bene analizzare.
Lasciamo stare le ragioni dei cosiddetti negazionisti: coloro che sostengono che il contributo umano al riscaldamento del pianeta è tutt’altro che certo. E che quindi è inutile dannarsi, perché lo si farebbe inutilmente. Questa posizione non è la posizione della maggior parte delle Nazioni, ivi comprese praticamente tutte le grandi potenze. Anche se non è affatto da escludere che qualcuno, sotto sotto, la tenga in considerazione. Una ragione più solida potrebbe invece essere rintracciata nei conti che ciascuno fa, a casa sua, sui danni e i benefici di un aumento di temperatura. Sì, perché ci sono anche i benefici. Per paesi con una geografia largamente dominata da zone fredde l’aumento di qualche grado di temperatura potrebbe comportare non pochi benefici. Se vivete in Siberia è difficile che possiate essere spaventati da un aumento della temperatura di qualche grado. Estensione delle aree coltivabili, maggior confort personale, minori spese energetiche. Si tratta di una argomento “egoistico” non esplicitamente sostenibile, ma che sicuramente è stato studiato accuratamente dalle diverse potenze geografiche.
Ma la questione sostanziale è un’altra. Per quanto si cerchi di rendere virtuoso dal punto di vista economico il passaggio ad una struttura sociale e produttiva a minore intensità di carbonio, si tratta comunque di un processo costoso. Piuttosto costoso. Molto costoso, se la riduzione deve essere consistente.
Il che solleva due problemi. Il primo, evidente, ha a che fare con il consenso politico di breve medio periodo. Ragion per cui Obama, per esempio, non se la sente di aumentare il prezzo dell’energia per i consumatori americani. E nemmeno di colpire i produttori nazionali di carbone. (Gli Usa fanno il 51% dell’energia elettrica con il carbone). Solo Obama? Qui da noi un giorno le spariamo grosse sull’effetto serra e il giorno dopo ci lamentiamo perché la benzina costa troppo. Se fossimo veramente preoccupati, la benzina dovrebbe costare 5 volte tanto! Come nelle guerre vere. Addirittura si sentono ecologisti di provata fede contestare le centrali nucleari perché… costano troppo. E giornali radicali richiedere a gran voce la diminuzione del prezzo del gas. Evidentemente per consumarne un po’ di più. Ma non si trattava di dispiegare ogni mezzo ed ad ogni prezzo per vincere la famosa guerra?
Ma la spiegazione, anche a queste contraddizioni, sta, probabilmente nel secondo e più profondo argomento. Vale a dire: se dovremo fronteggiare rilevanti mutamenti ambientali, è meglio farlo da ricchi che da poveri. I poveri sono i più colpiti dai disastri ambientali. I poveri sono i più colpiti da tutte le disgrazie. Per esempio, come fa rilevare Pielke, esperto olandese di problemi ambientali, sentito a “Spoleto Scienza”, da epidemie e malattie endemiche, che sono fronteggiabili, se il reddito personale è sufficiente. In modo un po’ provocatorio sempre Pielke fa osservare che sopra i 3.000 dollari di reddito annuo non si muore più di malaria. Perché si hanno i soldi per prevenirla e curarla. Ed il miglioramento nella qualità della vita, che un costante aumento del reddito può produrre in paesi come Cina, India, Brasile, è tale da mettere in secondo piano i problemi ambientali. Se muoio di fame, di malaria o di Aids è difficile che io possa accettare un’ulteriore riduzione di un reddito già modesto per fronteggiare un pericolo incerto (per me) e futuro. E comunque capisco che se questo succederà è più facile che la sfanghi il ricco americano piuttosto che un povero brasiliano.
Ragionamento miope? Può darsi, ma molto molto concreto. La Cina, per esempio, che guida in questo campo l’area dei paesi poveri, non ha alcuna intenzione di sacrificare la propria crescita economica, destinando risorse alla lotta all’effetto serra. Ne fa anche una questione di giustizia. Le emissioni procapite cinesi continuano ad essere una frazione di quelle americane o europee. Come è una frazione di quello americano o europeo il PIL procapite cinese. E siccome fra le due cose, come è noto, la relazione è chiara ed evidente, la Cina pensa che sia suo diritto tendere ad un PIL maggiore con inevitabili maggiori emissioni. Shyam Saran, il negoziatore indiano alla prossima riunione di Copenaghen ricorre ad una metafora: “l’atmosfera è piena dei gas serra dei paesi ricchi. Sarebbe ora che facessero un po’ di spazio ai nostri gas serra”.
Che fare? Ancora una volta, forse, la tecnologia ci salverà. Avremmo bisogno di una profonda rivoluzione tecnologica sia sul lato dell’offerta di energia (rinnovabili, nucleare) sia sul lato della domanda (efficienza energetica, risparmio). Ma le tecnologie devono essere oltre che più efficienti, anche meno costose rispetto a quelle attuali. Tutte le rivoluzioni tecnologiche profonde hanno coniugato questi due aspetti. Il motore a scoppio ha ridotto drasticamente i costi di trasporto, il PC ha enormemente incrementato la produttività del lavoro. Il telefono e poi internet la produttività e i costi delle comunicazioni. E via dicendo. Non basta affermare che tecnologie più efficienti si ripagano. Bisogna vedere come e in quanto tempo. Se la benzina costa un dollaro a gallone ( 4 litri e rotti) è difficile che io scelga di comprare un’auto piccola e costosa. Per il momento per esempio sul lato della produzione di elettricità solo il nucleare sembra in grado di competere con le sorgenti fossili (carbone e gas). Ed infatti la Francia è il paese che ha le emissioni di CO2 più basse pro capite e in relazione al reddito prodotto. 0,30 tonnellate per produrre 1.000 dollari di PIL, contro le 0,75 della Cina, lo 0,52 della Germania, lo 0,45 del Giappone. Un confronto invece da CO2 e Pil ci dice per restare all’Italia che con 30.000 dollari di reddito pro capite contro i 36.000 della Francia l’Italia emette 7,02 tonnellate di CO2 procapite contro le 5,71 della Francia. Il 20% in più di emissioni per il 20% in meno di PIL.
Ma non vi è dubbio alcuno che sia già disponibile un ampio set di tecnologie con contenuto minore di CO2 rispetto alle generazioni precedenti. Bisognerebbe riuscire ad accelerare i tempi di sostituzione. Cosa non facile. Per ragioni temporali-organizzative (per esempio sostituire qualche miliardo di lampadine non si fa da un giorno all’altro) e ancora economiche. La vecchia auto ammortizzata consuma di più, ma non richiede esborso di nuovo capitale. Ci sono paesi talmente poveri e non certo piccoli dove le biomasse tradizionali (legna e sterco animale) pesano per grandi percentuali nella produzione di energia. Potete immaginare con quale basso rendimento. Ma hanno un vantaggio: costano poco e sono le uniche disponibili. Ancora una volta, quindi, per innovare, anche dal punto di vista ambientale, è meglio essere un po’ più ricchi che un po’ più poveri.
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