Appello de Il Manifesto. Copenhagen, il coraggio di cambiare la storia
“Copenhagen fallisce”, “Copenhagen non fallisce”, quel che è certo è che la conferenza di Copenhagen non si concluderà con un nuovo trattato post-Kyoto vincolante, ma solo con un accordo politico “ambizioso”. Di un trattato se ne riparlerà nel 2012!
Il fatto non stupisce troppo, anzi appare del tutto coerente con il modo in cui da sempre i responsabili della politica mondiale si sono posti di fronte alla crisi, un problema decisivo per le sorti dell’umanità. Dapprima, per decenni, ne hanno negato l’esistenza stessa. Ne hanno poi riconosciuto la realtà solo quando, negli anni ’70, scattò l’allarme di esaurimento delle energie fossili. Mai comunque hanno considerato la crisi ecologica nella sua interezza, ma hanno concentrato la loro attenzione soltanto sul mutamento climatico.
Certo, è questo l’aspetto più ineludibile dello squilibrio ecosistemico e, a termine, portatore di conseguenze gravissime, ma non è il solo: basti pensare alla costante diminuzione di acqua dolce, necessaria per usi umani e per il buon funzionamento degli ecosistemi, alla continua e crescente produzione di rifiuti non trattati e non trattabili, tra cui scorie tossiche e radioattive, che invadono territori, mari e oceani, al degrado del suolo con conseguenti effetti disastrosi sulla produzione alimentare. Infine hanno fatto della “green economy” lo strumento primario di soluzione del problema ambiente e insieme (continuando a ignorare gli insuperabili “limiti del pianeta”) della promozione di una nuova crescita produttiva al servizio del capitalismo globale. Ma In tal modo sono riusciti solo ad attizzare gli scontri di interessi fra le economie nazionali ed i grandi gruppi mondiali, finanziari e industriali, in competizione acerrima fra loro: quelle per la propria sopravvivenza, questi per la supremazia della - sperata - nuova economia: di fatto creando un nuovo pesante fattore dell’attuale fallimento dei negoziati sul clima.
In queste condizioni é più che giustificato esprimere seri dubbi su come e quanto la celebrata “green economy” possa dare risultati positivi nella lotta contro il riscaldamento atmosferico se - come accade - mentre si moltiplicano pannelli solari, turbine eoliche e automobili ibride, l’obiettivo dell’agire economico continua ad essere la crescita dei prodotti e dei consumi. Per fare un solo esempio, come pensare che un miliardo di nuove automobili (secondo le stime correnti da produrre nel corso dei prossimi quindici anni) possano, per quanto meno inquinanti, rappresentare un contributo positivo a uno “sviluppo sostenibile”? Se si considera la produzione di centinaia di migliaia di tonnellate di batterie, di fluidi/liquidi, di pneumatici, di vetro, di plastica, di materiali compositi, ecc. che le compongono? E si riflette su quante nuove migliaia di km di strade, autostrade, ponti ecc. circoleranno? E si pensa che ovviamente analoghe considerazioni sono possibili per qualsiasi altro prodotto di consumo, di cui si auspica la crescita? Che dire poi dell’ assurdità di cercare soluzione ai mutamenti climatici attraverso la contesa per più o meno diritti a inquinare e la loro vendita, vale a dire mediante l’esplicita riduzione a merce di aria, acqua, foreste, territorio, capitale biotico, salute, conoscenza?
E tuttavia non ci si può rassegnare a che la conferenza partorisca solamente un accordo politico. La “mutilazione” di Copenhagen può essere un’occasione storica, da un lato, per accusare con più legittimità e forza l’evidente inadeguatezza dell’attuale politica ecologica mondiale, funzionale alla conservazione del sistema che della stessa crisi planetaria è responsabile; e, dall’altro, per “battagliare” in favore di un vero trattato “ecologico” mondiale, che affronti adeguatamente i problemi del pianeta e dunque le sorti dell’umanità.
A tal fine un ruolo decisivo spetta ai rappresentanti eletti dai popoli, e in particolare del Parlamento europeo. Proprio il rischio di fallimento di Copenhagen, con il rinvio sine die di problemi ormai urgentissimi, e la cinica scelta a favore dell’industria capitalistica contro la salvezza dell’umanità, ha messo in luce la debolezza dell’Europa nei confronti delle massime potenze, in contrasto con posizioni più avanzate, spesso sostenute dai rappresentanti dei popoli europei, e in più occasioni dai popoli stessi.
Da Copenhagen può partire una pressione forte e decisa dei rappresentanti eletti sui rispettivi governi. Copenhagen, capovolgendo l’annuncio del proprio fallimento, può diventare un’occasione di fare storia per l’ambiente e per la democrazia. Aspettare il 2012 significherebbe abdicare.
Primi firmatari: Riccardo Petrella, Carla Ravaioli, Leonardo Boff, Eduardo Galeano, Ignatio Ramonet, Dario Fo, Immanuel Wallerstein, Marcello Cini, Aminata Traoré (Mali)
Anche L'Associazione A Sud e il suo portavoce Giuseppe De Marzo hanno aderito all'appello lanciato da Il manifesto
Per aderire all'appello: dimafoni(at)ilmanifesto.it
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