L’altra metà del cielo
Nel 2008 è stato pubblicato in lingua inglese l’ultimo libro di Robert Engelman intitolato More (di più) che ha, per sottotitolo, Popolazione, Natura e quello che vogliono le donne. Il libro tratta del tabù primario dei nostri tempi: la sovrappopolazione. Molti sono gli indicatori che danno una stima della pressione antropica sugli ecosistemi terrestri. Ognuno di questi include, ovviamente, implicitamente o esplicitamente, il numero degli umani oltre ai loro consumi di risorse.
La più popolare fra le misure escogitate per stimare la pressione antropica è, indubbiamente, l’Impronta Ecologica che mostra come Homo Sapiens, già oggi, consumi nel suo complesso la Natura ad un tasso che supera ormai del 30% la capacità di ricostituzione delle risorse terrestri. Il venticinque settembre si “celebra” l’overshoot day”, il giorno in cui ogni anno iniziamo a consumare risorse a debito.
Inoltre questo indicatore mostra che se l’attuale popolazione umana sviluppasse un metabolismo socio economico analogo, per intensità, a quello di quello del miliardo di persone che abitano i paesi industrializzati, non basterebbero quattro o cinque pianeti per sostenerla. Un’altra misura impressionante è quella che stima il consumo di prodotti vegetali che ogni anno le piante verdi producono sulla Terra, grandezza tecnicamente indicata come Produttività Primaria Netta (PPN), al netto cioè della respirazione. Le stime indicano che l’umanità si appropria di almeno il 25 per cento della PPN. Il grado di tracimazione ecologica della nostra specie è sinteticamente esemplificato in un singolo dato che viene riportato in diverse pubblicazioni.
Della biomassa totale dei vertebrati terrestri (mammiferi, uccelli, rettili e anfibi) solo il 2-3 per cento è biomassa selvatica, il restante 97- 98 per cento consiste per un terzo di biomassa umana e per due terzi di biomassa degli animali domestici (bovini, ovini, suini e pollame). Un dato che da solo dovrebbe far riflettere sul peso imposto dalla nostra specie, questo eccezionale primate, sugli ecosistemi terrestri e, inultima analisi, su tutte le altre specie viventi. L’eccezionalismo umano è proprio nel fatto che esso è l’unico grande primate ad essersi imposto a tutte le latitudini e adattato a tutti i climi. La sua intraprendenza e la sua vivace dinamica riproduttiva, lo ha portato, gia nel lontano passato, a modificare pesantemente gli ecosistemi da lui colonizzati con grandi estinzioni della megafauna e vere e proprie rivoluzioni botaniche.
Nel lavoro di Engelman si inverte una tesi fondamentale della storia biologica umana. La cosiddetta rivoluzione agricola del neolitico, iniziata circa 10.000 anni fa, non sarebbe la causa della prima espansione demografica, come spesso affermano i demografi, ma l’effetto di una continua espansione della popolazione e di un successo nel portare ad età riproduttiva il terzo figlio, che già si manifestava nelle società di cacciatori raccoglitori. Il passaggio alla coltivazione e all’allevamento delle società agricole, sarebbe quindi l’effetto di una prima espansione demografica del cacciatore raccoglitore che aveva escogitato tecniche di caccia più efficaci in un ambiente dove le popolazioni animali non lo temevano perché lui, ultimo arrivato, non si era coevoluto con loro. A riprova di questo fatto sarebbe l’osservazione che nella sola Africa, culla originaria degli ominidi, non ci sono state estinzioni di massa dei grandi mammiferi, e questo perché essi si erano evoluti insieme all’uomo ed avevano darwinianamente “imparato” a temerlo.
Per quanto riguarda l’ultima grande espansione demografica, da alcuni definita Bomba Demografica, si potrebbe argomentare che essa più che dalla rivoluzione industriale e dal benessere da essa determinato, sia stata indotta dalla scoperta dell’uso dei combustibili fossili. Una riserva intatta di energia solare accumulatasi nel corso di centinaia milioni di anni in una forma particolarmente vantaggiosa e accessibile. La moltiplicazione per un fattore ormai prossimo a 7 della popolazione mondiale in poco più di due secoli non sarebbe tanto e solo l’effetto di una crescita socio- economica, come dicono i cantori dell’industrialismo, ma piuttosto l’effetto di una scoperta analoga a quella che 10.000 anni fa portò l’uomo a addomesticare animali e piante, ma più repentina e densa di conseguenze, almeno in un presente in cui si cominciano a scontare gli effetti del declino delle fonti energetiche fossili.
Non è colpa di nessuno se tutto questo è successo. Non si tratta qui infatti di osservare l’evoluzione naturale e sociale dell’uomo con la lente della morale, ma di capirne l’essenza sociobiologica e immaginare le possibili soluzioni. La tesi del libro è che se l’eccezionalismo umano risiede nel genere femminile, anche le soluzioni sarebbero nelle mani delle donne, purché si dia forza alla loro capacità di decisione e di autodeterminazione. Non sono slogan politici veterofemministi quelli che escono dal lavoro di Engelman, ma tesi ragionevoli degne di discussione a tutti i livelli della nostra società globale.
Qualcuno si è maliziosamente chiesto come faccia un maschio a sapere quello che vogliono le donne, ma a questo qualcuno, lui si portatore di un femminismo un po’ stantio, ha risposto in modo esemplare una donna con una semplice frase: “basta che abbia avuto la pazienza di ascoltarle”. Ed Engelman le ha ascoltate. Così dal suo lavoro si viene a sapere che nella comunità più remota e povera del mondo, un villaggio del Chad o del Malawi, per esempio, le donne sanno che esistono i sistemi anticoncezionali e vorrebbero usarli essendo stanche di avere un bambino al seno, uno sulle spalle ed uno per mano.
Stanche di vivere la propria sessualità come macchine da riproduzione. Si mettono di mezzo formidabili cortine ideologiche per nascondere questa semplice verità: le donne non vogliono più figli, ma vogliono di più per i propri figli. Sarebbe sufficiente dare alle donne di tutto il mondo il potere di scegliere se, quando, come e con chi, avere figli, godendo della propria sessualità con l’ausilio degli anticoncezionali, per far convergere rapidamente il tasso di natalità a quello di 2,1 figli per donna. E’ possibile che questa tesi sia troppo ottimistica, è possibile che molte donne, ancora condizionate da tradizioni nataliste fortemente radicate nelle comunità, siano indotte a desiderare una famiglia numerosa. Ma certo come punto di partenza non andrebbe preso quello dell’ineluttabilità della dinamica demografica come processo sul quale non abbiamo controllo. Del resto, in relazione agli aiuti che si dovrebbero dare ai paesi poveri, si parla sempre di aiuti alimentari, economici e tecnologici, ma non si fa mai menzione della semplicissima tecnologia che si nasconde nella prevenzione delle gravidanze indesiderate.
E lo si fa in ossequio al dettato di ideologie maschiliste spesso portate da gerarchie religiose sessuofobiche ed oscurantiste appoggiate da interessi politici ed economici di potenza coloniale. In sostanza la questione della sovrappopolazione diventa principalmente una questione femminile. Una questione di diritti civili.
Certamente sulla questione della popolazione, della diffusione della salute sessuale e riproduttiva e della programmazione familiare, la conferenza ONU del Cairo del 1994 non era stata granché, tuttavia la barriera al dispiegamento dei progetti da essa iniziati, opposta dall’amministrazione americana sotto i Bush, in accordo con il Vaticano e molti paesi islamici è stata molto peggio.
Seduti sul picco del petrolio, in piena crisi climatica e con le conseguenze che questi due fatti hanno sulla produzione di cibo non possiamo più attendere il prossimo ciclo malthusiano di “controllo” della popolazione in modalità naturale, non basta immaginare nuovi mezzi di produzione dell’energia da fonti rinnovabili, o predicare il risparmio e l’efficienza nello sfruttamento delle risorse e nel conferimento dei rifiuti del nostro metabolismo.
Ogni persona che non sia un analfabeta nelle Scienze Naturali, dovrebbe abbandonare la torre d’avorio della discussione accademica e diventare un militante del rientro dolce della popolazione umana entro limiti ecologicamente e socialmente sostenibili. Tale rientro dolce potrebbe proprio essere nelle corde dell’altra metà del cielo: le femmine di Homo Sapiens, le donne.
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