Obama e l'America Latina
Al di là delle intenzioni e dei discorsi del presidente statunitense, la politica Usa verso l'America latina rimane vincolata alle catene di un modello di sviluppo che si traduce in bisogno di controllo del territorio e delle risorse.
Qual è l’attuale livello della relazione politica tra gli Stati Uniti e l’America Latina? Nonostante Obama e i suoi condivisibili sermoni, quali sono le motivazioni che determinano le scelte economiche e militari della più grande potenza armata nel mondo con il continente ex-desaparecido?
Ad una rapida valutazione dei discorsi della nuova amministrazione Usa pare di scorgere, anche in alcuni gesti emblematici come lo scambio di sorrisi e di strette di mano tra Chavez e Obama, delle inversioni di tendenza.
Si apre uno spiraglio nella chiusura ottusa e distruttiva portata avanti con la giunta del nuovo secolo americano al potere per ben otto anni. Obama come Bush? Questo non lo possiamo affermare. Alla stessa maniera non possiamo affermare che siamo in presenza di un cambio di relazioni strategiche dell’amministrazione statunitense con i nuovi governi progressisti latinoamericani. Del resto gli interessi economici statunitensi, l’apparato di multinazionali, fabbricanti di armi e bolle speculative è così intriso nella politica economica capitalista che sarebbe irrealistico pensare ad una rottura del paradigma solo perché in presenza di un presidente «black» e democratico. Una cosa sono le politiche fiscali e sociali che Obama può fare a casa sua; un’altra è la geopolitica e la politica estera che gli Stati Uniti devono comunque continuare a portare avanti a prescindere dal presidente eletto.
Obama quindi non può cambiare nulla sul piano internazionale? Probabilmente qualcosa cambia, a partire da un approccio multipolare per ciò che riguarda la risoluzioni di alcuni problemi in cui gli Stati Uniti non vogliono più rimanere ai margini, anche per ragioni ovvie di convenienza nella riscrittura delle regole internazionali, così da mediare a proprio vantaggio in una situazione planetaria in cui i poli del potere politico economico non sono più solo tra Washington e New York, ma investono come minimo altre due continenti ad est della ex cortina di ferro. Cos’è dunque che Obama non può cambiare e non potrà cambiare, anche se volesse [e questo ci dovrebbe far riflettere sul reale «potere» della democrazia rappresentativa].
Quello che Obama non potrà mai cambiare è la politica di sicurezza e di espansione economica fondata sulla crescita e la competizione. Mc Donald ha bisogno ancora, ed oggi più che mai, di Mc Donnell Douglas per poter vendere e conquistare mercati. Il famoso pugno di ferro con il quale si aprono gli spazi e si «conquistano» i consensi, è lo stesso di sempre, magari un po’ più in sordina e mascherato, così da non imbrattare il vestito buono della festa quando ci si incontra tra un vertice e un altro, saltellando tra Copenhagen, Ginevra e Roma nel corso degli ultimi fallimenti internazionali targati Cop15, Wto e Fao.
Gli interessi in gioco troppo grandi perché qualcuno dal di dentro li metta in discussione. Possiamo concedere qualcosa sul piano del mercato interno, visto che tra l’altro la crisi ce lo impone ed uno Stato che elargisce soldi a banche e imprenditori dopo la crisi da questa provocata non pare vero.
Ma sul fronte «esterno» agli Stati Uniti la divisione nemici ed amici in salsa hollywoodiana funziona sempre come un disco rotto che ripete la stessa nota da qualche decennio.
La decisione di Obama di installare sette basi militari in Colombia, dal fedele alleato paramilitare al governo, Alvaro Uribe, si inquadra in questa necessità. Non è quindi Obama ad aver deciso ma i giganteschi interessi ed i piani strategici militari già stilati cinque anni prima, ai quali il presidente può solo dire si, a quanto pare.
Già nel 2002 la rivista Foreing Affaris raccontava come il segretario Donald Rumsfeld avesse completato lo sforzo di trasformazione militare della strategia, iniziato come un processo e non come una decisione casuale o difensiva. Il campo della post guerra fredda ha consegnato una novità profonda sul piano della strategia militare di guerra.
Non esistono più, o quasi, guerre vecchia maniera. Altre guerre si giocano su altri piani e l’addestramento militare è di tipo diverso e richiede un adattamento strategico a seconda degli interessi da difendere. Da questa visione i teorici del nuovo secolo americano avevano immaginato la vulnerabilità degli Stati Uniti su altri fronti e per porvi riparo teorizzato azioni ed attività per garantire quella che è stata definita la «U.S. Homeland Security». Da qui la necessità di basi militari all’estero nei luoghi potenzialmente intesi come una minaccia agli interessi a stelle e strisce.
Ma la domanda è, chi stabilisce cosa sia una «minaccia» per gli interessi statunitensi? E quali sono questi interessi? Le sette basi militari, i migliaia di contractors, militari ed addestratori inviati ufficialmente in Colombia esprimono questa necessità di sicurezza. Già ma da che cosa? Chi sono le minacce? I narcotrafficani? Non proprio, visto che la maggior parte di questi è stata a busta paga della Cia o della Dea ed ha costituito l’esercito di paramilitari che ha messo a ferro e fuoco la Colombia negli ultimi 15 anni massacrando tre generazioni di leader sindacali, indigeni e contadini. I terroristi? Qualcuno veramente crede possibile che i guerriglieri delle Farc dopo 45 anni in cui non sono riusciti ad conquistare il potere in Colombia possano rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti attaccando militarmente il suolo americano? Le basi di Al Qaeda? Qualcuno veramente, dopo le balle spaziali raccontati in mondo visione per legittimare la guerra preventiva in Iraq, crede ancora di vendere questa leggenda al mondo? Ve li vedete Bin Laden & company che si incontrano con gli agenti di Chavez per attaccare Wshington?
Quali minacce allora? Diciamo che la chiusura della base militare Usa di Manta, in Ecuador, grazie alla volontà di riprendere finalmente la sovranità del proprio territorio da parte del presidente ecuadoriano Rafael Correa, l’avanzamento dei processi politici di cambio e trasformazione del continente in molti paesi, a partire da Venezuela e Bolivia, fanno si che la presenza militare Usa debba essere garantita. Ma per garantire cosa? Cos’è che i nuovi processi latinoamericani non garantiscono più o potrebbero non garantire più? Ed allora scopriamo nella maniera più semplice che le nazionalizzazioni, le nuove costituzioni che introducono i «diritti della natura», i movimenti ovunque impegnati a difendere i beni comuni ed a cacciare le multinazionali onnivore del nord, le aspirazioni unitarie e bolivariane di un intero continente, la creazioni di una nuova idea della democrazia della terra, sono tutte minacce per gli interessi economici e gli enormi profitti sin qui realizzati dalle imprese statunitense, vera architrave della presunta democrazia occidentale. Queste sono le vere minacce agli interessi economici e strategici statunitensi, costruiti in larga misura sulla sofferenza, la distruzione e l’annichilimento delle aspirazioni di interi popoli o regioni del mondo.
Anche per questo risulta «conseguente» la scelta di Obama rispetto ad una governance internazionale che non pare proprio volere e potere capire la drammaticità di questa crisi, troppo impegnata a tenersi a galla, costi quel costi, anche il pianeta intero. Proprio per questo le forze politiche e sociali, democratiche e progressiste del nostro paese ed europee farebbero meglio a guardare con speranza ai processi democratici e progressisti in atto in america latina, cercando di capirne i contenuti e provando a stabilire una connessione non solo sentimentale ma politica per provare a salvare insieme questo pianeta e le nostre vite, evitando di correre dietro ai sogni a stelle e strisce. Così la smetteremmo di storcere troppo spesso la bocca o di rimanere vittime di un sogno destinato a scomparire tutte le volte che ci svegliamo la mattina nel nostro letto, in questo mondo.
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