Il polmone del mondo intossicato dalla soia
La foresta Amazzonica è sotto attacco. I coltivatori del cereale più esportato dal Brasile, a caccia di nuovi terreni, sono la causa prima del disboscamento. Il governo Lula emette sanzioni ma poi fa sconti del 90 per cento
La foresta pluviale Amazzonica sarebbe oggi ancora più a rischio a causa della crescente domanda di soia. E' quanto sostiene Lester Brown, storico ambientalista americano e presidente del centro di ricerca Earth policy institute di Washington in un suo articolo sul tema presentato la scorsa settimana a Washington. «L'Amazzonia - scrive Brown - è invasa dalla soia e domina completamente l'agrobusiness brasiliano». Sebbene fino agli anni 50 fosse un curioso cereale usato in maniera limitata, la scoperta dell'alto valore nutritivo nei mangimi per bovini e pollame, ha lanciato la soia nell'Empireo dei prodotti agricoli. Infatti, il consumo di soia è schizzato da 44 milioni di tonnellate nel 1959 a 280 milioni nel 2009. In Brasile negli anni 90 si è capito che dal punto di vista economico è il prodotto perfetto per gli allevamenti, e anche per l'export, tanto che nel 2009 ha superato in volumi commercializzati con l'estero qualsiasi altro cereale.
Attualmente il più grande importatore di soia brasiliana è la Cina. Oltre il 50 per cento finisce nei piatti del gigante asiatico e il mercato, secondo gli analisti, è destinato ad aumentare. «Un altro problema - prosegue Brown - è legato al fatto che le coltivazioni di soia stanno sostituendo i terreni degli allevamenti che a loro volta penetrano sempre di più nella fascia del perimetro amazzonico contribuendo alla sua deforestazione. C'è poi il costante aumento della domanda di questo cereale che spinge i contadini alla continua ricerca di nuovi terreni per la semina». Eppure il governo brasiliano afferma che da anni la tendenza si è invertita. Una grande multinazionale della produzione di pelle e secondo più grande esportatore di carne brasiliano, la Bertin, ha stretto recentemente un patto con Greenpeace per non acquistare capi allevati in zone recentemente deforestate del Polmone verde della Terra. Un accordo simile era stato stipulato nel 2006 con i commercianti di soia. Paulo Adario, direttore della Greenpeace Amazon campaign, ha dichiarato in proposito: «Questo è il tipo di iniziative necessario per fermare la distruzione della foresta amazzonica e contenere i cambiamenti climatici, grazie anche alla pressione dei consumatori».
Dal 2005 il governo centrale di Lula e nello specifico quello del Mato Grosso di Blairo Maggi, avrebbero intrapreso politiche radicali di lotta alla deforestazione. Per molte comunità indigene e sem terra, però, la svolta del governatore Maggi, detentore di un vero impero della soia - il Gruppo Andrè Maggi, 500 milioni di dollari di fatturato, il più grande produttore di soia al mondo - non quadra fino in fondo.
Nonostante abbia introdotto ferree leggi per limitare il disboscamento e all'interno della sua impresa vengano applicati rigidamente standard di sostenibilità, non tutti credono nell'illuminazione del governatore del Mato Grosso. Egli, infatti, fino al 2005 è stato uno dei principali responsabili della deforestazione nella regione. Secondo una fonte ben informata che preferisce rimanere anonima «non è chiaro quanti di coloro che non rispettano le leggi governative sulla deforestazione siano perseguiti. Però coloro che vengono sanzionati ottengono sconti fino al 90 per cento sul valore complessivo della multa. Inoltre i monitoraggi di allevatori e coltivatori illegali vengono fatti con immagini satellitari a una risoluzione che non permette di individuare bene i terreni disboscati. La scala delle aree analizzate - prosegue il nostro interlocutore - non permette di rintracciare i piccoli e medi allevatori e coltivatori, che sono soprattutto coloro che non possono permettersi economicamente di soddisfare tutti gli standard ambientali che grandi fazendas come la Maggi hanno adottato. Oggi i fazenderos devono mantenere intatto l'80 della foresta e il 35 per cento del bioma denominato cerrado (simile alla savana africana): aggirano, però, la questione disboscando a macchia di leopardo. In questo modo la foresta tenderà a deperire rapidamente e si distrugge la biodiversità, perché gli animali rimangono isolati e hanno raggio d'azione limitato per nutrirsi e riprodursi». Se poi si vuole pensar male fino in fondo, questa inversione di rotta potrebbe sottendere a qualcosa d'altro.
Il Brasile, infatti, insieme all'Indonesia è uno dei principali recipienti del Redd, il programma di riduzione della deforestazione e del degrado delle foreste delle Nazioni unite. Grazie ai fondi internazionali grandi compagnie e regioni come il Mato Grosso di Maggi potrebbero presto venire inondate di fondi che ripagherebbero le grandi compagnie che hanno limitato il disboscamento, indebolendo ulteriormente i piccoli coltivatori legali e illegali. «È il mercato a imporre questo cambiamento di rotta, non la coscienza ambientale. Le leggi sono applicate solo per mantenere lo stesso livello di fatturato. Certo qualcosa sta cambiando ma sono solo dei piccoli miglioramenti », conclude la nostra fonte. I dati sembrano parlar chiaro: il disboscamento sarebbe rallentato del 30 per cento, almeno secondo il governo brasiliano. Eppure i contorni della faccenda rimangono sfumati. Nuove crisi alimentari e l'aumento della domanda della soia, specie dalla Cina, potrebbero di nuovo accelerare la penetrazione nella foresta. «Salvare la foresta amazzonica dipenderà da come verrà regolata la domanda internazionale di soia», avvisa Lester Brown.
|