n. 2
marzo-aprile 2007
Abbasso le Olimpiadi
Vogliamo parlar male dello sport
A chi verrebbe in mente di parlar male dello
sport? Ma non di quello di cui è facile parlar male, tipo: il calcio dei
Moggi e della violenza negli stadi, l’atletica del doping, l’automobilismo
miliardario degli incidenti mortali, l’ippica delle scommesse con l’ultimo euro
e, finendo in gloria, il pugilato in tutto e per tutto. Vogliamo parlar male
proprio di quello santificato da tutti, medici in testa e politici in coda. Sì,
sì, proprio quello sport che fa tanto bene alla salute, e non solo al corpo, ma
anche allo spirito perché, educando al rispetto delle regole e impegnando ad un
sano agonismo, con la sportiva accettazione della sconfitta promuove la
costruzione di un carattere più saldo nei rovesci della vita, e con
l’esaltazione, sempre sportiva, della vittoria rafforza l’autostima e la
realizzazione di sé. Per non parlare dell’alto valore formativo degli sport di
squadra, dove l’impegno personale viene messo al servizio degli altri, e quello
che conta non è più il singolo ma il tutto, la squadra insomma, profetica
metafora della società civile. Cosa pretendere di più?
Perché aspettare? E allora vai con l’iscrizione precocissima a qualche corso di
avviamento allo sport, certo qualche volta costa un po’ di sacrificio ma, visto
che fa tanto bene, si può fare, anche se poi col tempo il sacrificio diventa
grosso, perché lo sport per la creatura non è sempre gratuito, anche quando lo
è, perché il tempo è rubato ad altro e le palestre e le piscine non te le fanno
mai sotto casa, e la strada è piena di pedofili, la benzina costa, e non solo
quella ma anche le gomme, l’olio, le riparazioni, e costa il completino e le
scarpette e tutto il resto che come si fa a negarglielo che si diverte tanto, e
allora viva il nuoto che basta un costume e poi è uno sport completo, e si
diverte anche di più che in palestra perché l’acqua be’, quella sì che ai
bambini è sempre piaciuta, che tutto sommato non è che nuotino tanto, ma
comunque impara a non affogare, e almeno quello perché alle prime gare, sì sì
proprio gare, primi ci arrivano in pochi e gli altri sono tutti secondi e alcuni
addirittura ultimi, oddio ultimi!, però sono pochi, oh! insomma qualcuno deve
pur soccombere, e comunque si divertono anche loro e poi gli fa bene, nella vita
è così, perché è a questo che serve lo sport, a capire che ci sono i primi e i
secondi, e tutti sono contenti, i primi perché sono primi, e i secondi perché se
no non sono sportivi e allora fuori dalle scatole e vai fare qualche altra cosa,
perché ci sarà pure qualcosa dove riuscirai ad arrivare primo. O no?
È questo lo sport? Viene il dubbio che
questo non sia lo sport, o forse che questo sia lo sport ma noi, quando
pensavamo al benessere psichico e fisico dei nostri bambini, intendessimo
un’altra cosa. Forse quello a cui noi pensavamo, nel nostro immaginario storico,
o letterario, era un bel prato verde, attrezzato e recintato, facilmente
raggiungibile a piedi da casa, o addirittura gli stessi spazi aperti delle
scuole, con tanti bambini di diversa età, variamente raggruppati e mutevolmente
intenti a giocare, con un rimescolamento continuo di giochi e giocatori, senza
un ordine superiore che regolasse il tutto, ma con un ferreo ordine interno
specifico ai gruppi e che proprio per questo doveva essere rispettato. Forse ci
vedevamo anche qualche adulto, genitori o nonni o operatori pubblici, occupati a
godersi lo spettacolo e pronti ad intervenire, intelligentemente, in caso di
baruffe irrisolte. Forse, in una situazione normale come quella, ci saremmo meno
preoccupati del freddo o del sudore o di un po’ di pioggia. Forse, fra tanti ci
sarebbe scappato anche il campioncino, ma sarebbe stato un evento fortuito, o
come si dice “serendipico”, cioè impegnandosi a fare bene si è incappati in un
qualcosa di notevole e di inaspettato, e che se non ci fosse stato saremmo stati
bene ugualmente.
Una patacca. Se è così, allora, forse, bisogna dire sempre forse, qualcuno ci ha
venduto una patacca, però ben confezionata, un bel pacco generosamente riempito
dalle società sportive, scientificamente imballato dalla medicina sportiva,
servizievolmente incartato e infiocchettato dalla politica, e distrattamente
acquistato da noi cittadini.
In effetti, nonostante il fiorire di palestre pubbliche e private, e il gran da
fare che tutti si danno per convincerci a fare “lo Sport”, e nonostante noi si
sia tutti abbastanza convinti che serva farlo, i risultati, in termini di
soggetti praticanti, sono assolutamente deludenti. I dati ISTAT sono eloquenti:
nonostante un aumento nel corso degli ultimi venti anni dei praticanti nell’età
scolare, dall’adolescenza in poi inizia un declino che si mantiene fino all’età
adulta.
Gli ostacoli sono numerosi, e il primo è proprio insito nella concezione dello
sport che prevale oggi. Come può essere per tutti, se lo colleghiamo e leghiamo
al raggiungimento del primato e del record costi quel che costi? Formalmente è
per tutti, in realtà è per pochi naturalmente dotati. Necessariamente gli
esclusi saranno la stragrande maggioranza. Parliamo di sport come se parlassimo
di competizione industriale, di investimenti di capitale, di successo economico,
di emancipazione sociale, quando dovrebbe invece significare passare il tempo
allegramente. Ma se anche lo interpretassimo per quello che veramente è, o non
volessimo vedere tutto questo gran male nella attuale promozione sportiva, dove
lo andiamo a praticare? Tra i motivi denunciati dai giovani che non hanno
iniziato o hanno abbandonato la pratica sportiva figura in testa l’eccessiva
quantità di tempo sottratta allo studio e la mancanza di disponibilità di
impianti sportivi, sia per la distanza sia per gli orari. Due motivi che possono
sovrapporsi, perché più è lontana la palestra più tempo si perde. Ovviamente una
palestra è troppo costosa, come costruzione e manutenzione (non parliamo delle
piscine) per poterne avere una per quartiere e, se anche fosse (ogni scuola ne
ha una o quasi), sarebbe comunque troppo piccola per ospitare tutti i potenziali
fruitori. E poi, proprio perché la palestra costa molto, chi la vuole usare è
giusto che in parte contribuisca, e l’aspetto economico è un altro dei motivi
che, sempre secondo l’ISTAT, allontanano allo sport.
Felice quel popolo che non ha bisogno di
medaglie! Che fare allora? Il povero CONI (Comitato Olimpico Nazionale
Italiano), ente deputato a promuovere “lo Sport” per, come dichiara il suo nome,
farci raggranellare il maggior numero di medaglie alle Olimpiadi, perché un
paese con poche medaglie è una fetecchia, fa quanto è nelle sue possibilità per
fornirci di impianti adeguati, ma non ha dallo Stato (in realtà dagli incassi
del Totocalcio) sufficienti denari e così siamo condannati, ogni quattro anni, a
piangere sul nostro amaro di destino di popolo inferiore. Ma ci importa così
tanto di vincere medaglie? Ci fa bene alla salute? Misura il nostro grado di
civiltà? Non avremmo forse bisogno del contrario, nel senso di competere di meno
e divertirci di più, magari tutti, forti e deboli, geni e poveri di spirito,
piccoli e grandi? Per questo non ci servono costose e scomode palestre, né
piscine coperte, né mega impianti. Se qualcuno li vuole se li paghi con i suoi
soldi. Felice quel popolo che non ha bisogno di medaglie! Per noi comuni mortali
è prioritario realizzare quel semplice sogno di prati e bambini e nonni e
giochi, e sarebbe ora che se ne rendesse conto anche chi ci dovrebbe servire
amministrando il denaro pubblico. Non dovrebbe essere così difficile progettare
in ogni quartiere spazi verdi protetti, idonei a tutte le età, facilmente
raggiungibili dai bambini senza troppe preoccupazioni dei genitori. O forse sì?
Per pigrizia mentale? Per ignoranza? Per conflitto di interessi? Riacquistiamo
coscienza, aumentiamo la partecipazione e cambiamo le nostre città, magari anche
al grido di abbasso “lo Sport”, abbasso le Olimpiadi, abbasso il CONI!
LA LIBERTÀ
Voi, robusti ragazzi di campagna che dovete fare soltanto un passo per trovarvi
nei campi infiniti sotto l'immensa volta blu del cielo, voi i cui occhi sono
abituati a vaste distese di terra e che non siete chiusi tra le grigie mura
delle città, voi non potete neppure immaginare cosa significhi un pezzo di
terreno libero per un ragazzo della capitale (ndr Budapest). Per lui è la
libertà...
da I ragazzi della via Pal, Ferenc Molnar
SERENDIPICO
Strana parola che deriva, tanto per cambiare, dall’inglese “serendipity”, parola
coniata nel 1754 dal letterato Horace Walpole il quale, rimanendo colpito dal
racconto dei "Tre principi di Serendippo" di Cristoforo Armeno, ne estrasse un
personalissimo principio: serendipity è dunque lo scoprire una cosa non cercata
e imprevista mentre se ne sta cercando un'altra.
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