c Vale la pena piangere per il fallimento del Doha Round? - 27/06/2007 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
Home Capitolo
APRE CAPITOLO RASSEGNA STAMPA
RASSEGNA STAMPA
Invia questa notizia ai tuoi conoscenti
Home Sito
APRE IL SITO DI PROGETTO GAIA
[Data: 27/06/2007]
[Categorie: Movimenti ]
[Fonte: Campagna per la riforma della Banca Mondiale ]
[Autore: Roberto Sensi]
Roberto Sensi per Mani Tese/CRBM
Social network:                e decine d'altri attraverso addthis.com Tutti gli altri con: addthis.com 

Spazio autogestito Google


Vale la pena piangere per il fallimento del Doha Round?
Roma, 25 giugno 2007

È passato quasi un anno dal fallimentare Consiglio Generale di fine luglio 2006, quando Pascal Lamy, direttore generale dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), annunciava il congelamento dei negoziati Wto, fissando la loro ripresa a data da destinarsi. Se si rileggono le affermazioni fatte allora dai rappresentanti dei “grossi calibri” della Wto, ovvero Stati Uniti, Unione Europea, India e Brasile, e poi si dà un’occhiata a quelle che hanno seguito il fallimento del mini-vertice di Postdam di due giorni fa, ci si accorgerà che nei 12 mesi appena trascorsi non è cambiato un bel niente. A fronte di una membership di 150 Paesi, nella Wto a decidere sono in quattro, a volte sei, ma mai di più. A dispetto del fatto che il Round dello Sviluppo fosse partito nel 2001 a Doha per correggere le storture prodotte dalla precedente tornata negoziale – l’Uruguay Round – tutto si arena su questioni di quote di accesso al mercato. Da qui, l'esasperazione di India e Brasile di fronte al rifiuto di Usa e Ue di tagliare effettivamente, anche se in maniera non considerevole, i loro sussidi e le loro tariffe agricole. Sempre da qui, le accuse che da entrambe le sponde dell'Atlantico si muovono in materia di tagli alle tariffe sui prodotti industriali in direzione dei due Paesi emergenti.

Lo stallo del Doha Round è la cartina di tornasole di una crisi più generale del sistema di governo del commercio a livello multilaterale. L'emergere di nuovi grandi player economici quali India, Brasile e Cina ha posto le vecchie potenze di fronte ad un nuovo scenario, nel quale non si può prescindere dal consenso di questi Paesi in via di sviluppo. Dal fallimento della Conferenza ministeriale di Cancun nel 2003, quando furono proprio India e Brasile, capeggiando il Gruppo dei 20, a contribuire in modo determinante al naufragio dei negoziati, è iniziato il processo di avvicinamento di questi due Paesi al tavolo di quelli che contano nella Wto. Un avvicinamento inevitabile, data la rilevanza economica dei Paesi in questione, ma che ha fatto emergere la distanza di interessi esistenti all'interno del nuovo “quadrilatero”. Interessi, sia chiaro, di tipo offensivo, vale a dire orientati a guadagnare quote di mercato. Non certo, come si era palesato a Cancun, interessi di un generico "blocco del Sud", orientati all'obiettivo primo dello stesso Doha Round, vale a dire ad un ri-equilibrio delle asimmetrie esistenti all'interno del sistema commerciale mondiale che lo renda effettivamente capace di contribuire allo sviluppo di del Sud del pianeta.

In questo processo di mutazione subito dal negoziato iniziato nella capitale del Qatar sei anni fa, i Paesi poveri sono stati ridotti ad un mero ruolo di comparsa, registrando una progressiva marginalizzazione dei due macro-temi prioritari per lo sviluppo: l'implementazione e il trattamento speciale e differenziato. Un'esclusione che negli anni ha prodotto una nuova alleanza, il G90 Plus, che proprio in relazione all'ultimo meeting del G4 di Postdam ha preso una posizione netta, affermando a chiare lettere la mancanza di legittimità di tale gruppo a negoziare per i restanti Paesi membri. Un forte richiamo alla trasparenza e alla democrazia, due elementi che però non risolvono il problema reale, vale a dire che senza un’intesa tra questi quattro realtà il negoziato non si chiude. E l'accordo nel breve periodo non ci sarà, probabilmente, almeno fino all'entrata in carica del nuovo presidente degli Stati Uniti, prevista nel 2009. La maggioranza democratica del Congresso, infatti, è sempre più critica in relazione alle politiche commerciali Usa, affermando che le opportunità di esportazione commerciale non compensano la perdita di posti di lavoro conseguenti agli accordi di libero scambio. Da ciò il quasi certo rifiuto di rinnovare la Trade Promotion Authority, di prossima scadenza, che permette al potere esecutivo di negoziare in materia commerciale sottoponendo poi gli accordi al Congresso, che però può solo ratificare o bocciare, senza possibilità di emendamento. Si capisce che senza questo strumento l'amministrazione Bush non sarà in grado di produrre alcuna sintesi efficace per un Congresso che non è disposto a sacrificare la propria politica agricola per i benefici di un accordo Wto che non reputa proporzionati.

Problemi tutti interni li ha anche l'Ue, messa alle strette dalla Francia, preoccupata per le offerte, seppur minime, fatte in materia di tagli alle tariffe e diminuzione dei sussidi interni. Offerte che, guarda caso, sono in linea con la riforma della sua politica agricola che entrerà a regime dal 2008 e che non possono spingersi oltre, perché altrimenti si dovrebbe davvero concedere qualcosa di concreto.

In tutta questa partita di interessi, il posto per questioni di sviluppo non c'è. La preoccupazione per un blocco nell'avanzamento dell'agenda di liberalizzazione commerciale e livello multilaterale, che lascerebbe spazio ai peggiori accordi bilaterali e regionali che si stanno negoziando, come ad esempio gli Economic Partnership Agreements tra Ue e Paesi ACP (Africa-Caraibi e Pacifico) non va sottovalutata. Ma la questione di una contrapposizione tra un'agenda multilaterale ed una bilaterale/regionale è, come abbiamo visto, mal posta. L'intensificarsi dei negoziati bilaterali e regionali non è contestuale al fallimento dei negoziati di Doha, ma è iniziato prima. L'agenda bilaterale dei Paesi della Wto è complementare a quella multilaterale. Ciò che non si consegue in quest'ultima, come il tema degli investimenti, si ottiene nella prima. L'unica differenza è che l'agenda multilaterale prosegue più lenta, come è normale che sia a fronte del numero dei Paesi coinvolti.

In crisi è l'idea stessa che il libero commercio porti sviluppo, sia da una stretta logica economicista di crescita della ricchezza interna, e ancora di più, da un punto di vista di benessere sociale e della sostenibilità ambientale. Se non viene messo in discussione questo assunto, e l'ambito multilaterale è il luogo necessario per avviare questo processo, non conviene versare lacrime per il fallimento del Doha Round. Perché non solo non avrebbe avvantaggiato i Paesi poveri, ma li avrebbe ulteriormente indeboliti, in particolare nella dimensione della loro sovranità economica necessaria per avviare qualsiasi tipo di progetto di sviluppo nazionale. Gli accordi regionali e bilaterali sono peggiori, non vi è dubbio, ma in questo momento la logica del meno peggio è la più dannosa che ci sia. Adesso è necessario rivendicare l’esigenza di un “altro” commercio anche nell'interesse stesso dell'Organizzazione che dalla sua costituzione non finiamo mai di criticare. Una rivendicazione che dobbiamo indirizzare prioritariamente alla Commissione europea e alla sua retorica sviluppista in materia di libero scambio.

ROBERTO SENSI - MANI TESE/CRBM

FONTE: APRILEONLINE

PARTECIPA ALLA CAMPAGNA "IO FACCIO LA MIA PARTE"

 

Per il nostro Emporio... clicca!CLICCA PER IL NOSTRO EMPORIO

 

Spazio autogestito Google