Il caffè biologico è a rischio. La produzione costa troppo
Le quote di mercato di questo bene vanno assottigliandosi sempre di più. Negli ultimi 3 anni il 10 per cento dei coltivatori che utilizzano metodi naturali ha gettato la spugna per ritornare all’uso massiccio di diserbanti e concimi.
Caffè bio addio. Penalizzati dalla legge della domanda e dell’offerta, il caffè e i suoi derivati rischiano di scomparire in pochi anni dai listini degli organi internazionali di controllo che certificano i prodotti organici, quelli conosciuti dai consumatori con il marchio bio. Secondo il Christian Science Monitor, infatti, negli ultimi tre anni almeno il 10 per cento dei coltivatori centroamericani avrebbe rinunciato al biologico e ai sistemi di coltivazione tradizionali in favore di concimi chimici e diserbanti. Un “ritorno al futuro” assai allarmante, tenuto conto che proprio l’America Centrale è il regno del caffè organico, con i tre quarti della produzione mondiale provenienti dalle piantagioni sparse tra Messico e Costarica.
Ragione unica per questa inversione di tendenza è il mercato. Il caffè è un bene diffuso che viaggia da un luogo all’altro del pianeta con un volume di scambi enorme, a presiedere il quale vi è l’Ico (Organizzazione internazionale del caffè) cui aderiscono quasi tutti i paesi produttori e quasi tutti quelli consumatori. La quotazione in borsa del caffè, sia per le partite di qualità arabica che di robusta, avviene ogni giorno a Wall Street e alle borse di Londra, Parigi e Le Havre. Il prodotto organico non sfugge alla morsa del liberismo e, sebbene la domanda sia ancora forte, i prezzi offerti sono insostenibili per le aziende. Si fa presto infatti a dire “agricoltura organica”, ma ci vogliono poi buone pratiche e competenze di alto livello. «Tutte le coltivazioni di prodotti biologici sono effettuate su terreni che da almeno tre anni non subiscono operazioni di concimatura, diserbatura e lotta alle malattie con mezzi chimici».
Questa ad esempio la regola applicata dall’Istituto mediterraneo di certificazione col fine dichiarato di evitare ogni tipo di inquinamento, contaminazione o impatto negativo sull’ambiente. L’applicazione di tali criteri costa tanto in termini di lavoro e sacrifici, costa la formazione e costano i controlli. Tutto questo, alla fine dei giochi, si traduce in prezzi non concorrenziali. Le imprese di torrefazione, dal canto loro, non hanno altro interesse che spendere il meno possibile e contro i miracoli della chimica non c’è competizione. A Città del Guatemala, racconta il Monitor, 200 tonnellate di caffè verde bio non torrefatto, ben stipato in pile di sacchi da 60 kg l’uno, giacciono in un deposito. Sebbene sia uno dei caffè migliori del mondo, Gerardo de León, proprietario dello stock, non riuscirà a venderlo se non accettando l’offerta massima che supera di poco i 2 euro al kg, contro i 2,80 euro al kg richiesti.
Sul mercato attuale qualità superiore e sapore senza paragoni non bastano a giustificare i prezzi che, per garantire un beneficio ai piccoli produttori, devono oltrepassare di circa un terzo quelli del caffè generico. Il margine di guadagno dei prodotti organici supera infatti del 25 per cento quello dei prodotti convenzionali ma, tra certificazione, buone pratiche e perdite dovute ai parassiti, i costi di produzione sono più alti del 15 per cento. Se si conta infine che un ettaro di buona terra produce all’incirca 520 kg di caffè bio contro gli 880 kg di caffè generico, ecco che i conti non tornano. Circa dieci anni fa, con i prezzi al minimo sul mercato mondiale e sotto la spinta di alcune Ong specializzate in materia di sviluppo sostenibile, decine di migliaia di agricoltori latinoamericani cominciarono a convertire le loro aziende, impegnandosi a seguire regole severe per liberare il suolo da pesticidi e fertilizzanti chimici e ottenere prodotti biologici certificati.
Un lavoro lungo e difficile dopo anni passati a spargere fino a 45 chili di fertilizzanti chimici su ogni ettaro di terreno e tonnellate di pesticidi nocivi per la salute umana. La promessa, dopo aver effettuato la conversione, era l’ingresso in un mercato in crescita che pagava fino al 40 per cento in più del convenzionale, permettendo inoltre di preservare la qualità della terra e la biodiversità del territorio. Purtroppo il processo di conversione richiede tempo e gli sforzi cominciano a essere ripagati solo a partire dall’ottenimento della certificazione, ossia almeno tre anni dopo l’inizio del lavoro. Tre anni durante i quali gli agricoltori vanno in debito. Dal momento in cui il mercato non assorbe più la totalità della produzione a prezzi vantaggiosi, l’unica strada possibile per molti è ricominciare a produrre massicciamente senza andare troppo per il sottile.
«Posso vendere (caffè non organico, ndr) a un intermediario circa allo stesso prezzo (dell’organico, ndr), solo un po’ meno, e posso usare quello che voglio sulle piante di caffè, fertilizzanti, pesticidi…», dice Josè Perez, un piccolo produttore guatemalteco che dall’anno scorso ha smesso di produrre caffè biologico. «In questo modo posso crescere molto di più». Ad invertire questa tendenza però ci potrebbero pensare il popolo, sempre più numeroso, dei consumatori responsabili.
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