c Migranti, Erri De Luca: noi, carcerieri di viaggiatori - 24/03/2010 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 24/03/2010]
[Categorie: Video;Storia ]
[Fonte: Libreidee]
[Autore: Erri de Luca]
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Migranti, Erri De Luca: noi, carcerieri di viaggiatori

Migranti, Erri De Luca: noi, carcerieri di viaggiatori

I poteri hanno visto nelle isole dei luoghi di reclusione, hanno piantato prigioni su ogni scoglio: il mare nostro brulica di sbarre. Gli uccelli invece vedono nell’isola un punto di appoggio, dove fermare e riposare il volo, prima di proseguire oltre. Tra l’immgine di un’isola come recinto chiuso, quella dei poteri, e l’immagine degli uccelli, di un’isola come spalla su cui poggiare il volo, hanno ragione gli uccelli. Nel canale di Otranto e Sicilia, contadini di Africa e d’Oriente affogano nel cavo delle onde. Il pacco dei semi si sparge nei campi sommersi del mare, un viaggio su dieci sprofonda, la terraferma Italia è terra chiusa: li lasciamo annegare, per negare.

Il 1900 è stato il secolo in cui milioni di essere umani si sono spostati da un continente all’altro. E così hanno spostato il peso del mondo. Milioni di Erri De Luca 2esseri umani, miriadi di esseri umani. Nel 1900 siamo stati noi, italiani, gli azionisti di maggioranza. Trenta milioni di noi si sono spostati. Al porto del molo Beverello si staccavano le navi che portavano dall’altra parte dell’Oceano. Era nero, il molo, di madri. Con quei loro fazzolettini bianchi, che sembravano tante farfalline immobili, inchiodate. Verso la poppa che se ne andava lentamente, a motori bassi, verso la diga foranea. E’ stato il nostro 1900. Ha spopolato, svuotato terre e paesi molto più di due guerre mondiali.

Quelli di adesso, invece, partono sopra degli zatteroni, dei barconi a motore, verso un nord sommario, purché non sia un porto. E si portano dietro tutto quello che hanno potuto salvare da una espulsione, lasciandosi dietro un bucato in fiamme, oppure una miseria infame. Ma quegli occhi sbarcheranno da noi, e saranno rinchiusi, dentro Centri di Permanenza Temporanea. Chiamiamo così dei posti che sono dei campi di concentramento con sbarre, filo spinato, guardiani. Ma “permanenza”: un bel nome alberghiero, per non dire a noi stessi che facciamo i carcerieri di viaggiatori, colpevoli di viaggio.

Quegli occhi sbarcheranno da noi, e allora sì, si accorgeranno dello spariglio, della disparità delle carte in tavola. Ma finché stanno sul mare, quegli occhi ammirano la grazia infiocchettata del veliero, tutta nodi e corde tese al vento, come i muscoli di un atleta. Ammirano e godono del vantaggio del loro punto di vista perché loro dal barcone vedono la sfilata Lampedusa migrantipiacevole e indifferente della fortuna, mentre quelli del veliero sono costretti a vedere, o a voltarsi per non vedere, la sfilata della malasorte e della miseria del mondo.

“Che dà allo straniero pane e vestito”: questo dice di sé la divinità nella scrittura sacra. “Che dà allo straniero pane e vestito”. Che alla creatura umana dice: “E amerai lo straniero perché stranieri foste in terra d’Egitto”. Circa cento volte la Bibbia scrive la tutela dello straniero: circa cento volte. Insiste, la divinità, con il verbo “amare”, con il più forte sentimento e la più potente energia del copo umano – “amare”: che fa del bene prima di tutto a chi ama, prima ancora di far del bene all’altro, allo straniero. Amare, non tollerare. Non respingere, alla rinfusa, donne incinte. E nessuno dica: «Ma perché partono incinte, queste benedette donne ragazze?». Perché non partono incinte. Vengono violate, regolarmente, a ogni frontiera africana.

Nasce tra i clandestini. Il suo primo grido è coperto dal rumore del giro delle eliche. Gli staccano il cordone. E, senza fare il nodo, lo affidano alle onde. I marinai li chiamano Gesù questi cuccioli nati sotto Erode e Pilato messi insieme. Niente, di queste vite, è una parabola. Nessun martello di falegname batterà le ore nell’infanzia e i chiodi nella carne. Nasce tra i clandestini, l’ultimo Gesù. Passa da un’acqua di placenta a quella del mare, Erri De Luca 1senza terraferma, perché vivere ha già vissuto e dire ha detto, e non può togliere una spina dai rovi che incoronano le tempie. Sta con quelli che esistono il tempo di nascere, va con quelli che durano un’ora.

Siamo gli innumerevoli, raddoppia ogni casella di scacchiera. Lastrichiamo di corpi il vostro mare per camminarci sopra. Non potete contarci; se contati, aumentiamo, figli dell’orizzonte che ci rovescia a sacco. Nessuna polizia può farci prepotenza più di quanto già siamo stati offesi. Faremo i servi, i figli che non fate. Nostre vite saranno i vostri libri di avventura. Portiamo Omero e Dante, il cieco e il pellegrino – l’odore che perdeste, l’uguaglianza che avete sottomesso.

Da qualunque distanza, arriveremo. A milioni di passi. Noi siamo i piedi, e vi reggiamo il peso. Spaliamo neve, pettiniamo prati, battiamo tappeti, raccogliamo il pomodoro e l’insulto. Noi siamo i piedi e conosciamo il suolo passo a passo. Noi siamo il rosso e il nero della terra, un oltremare di sandali sfondati, il polline e la polvere nel vento di stasera. Uno di noi, a nome di tutti, ha detto: «Non vi sbarazzerete di me. Va bene, muoio; ma in tre giorni resuscito e ritorno».

(Erri De Luca: il racconto dell’immigrazione dal cimitero di Lampedusa, dal programma “Che tempo che fa” del 20 maggio 2009, RaiTre).

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