Il cibo non scende dal cielo
terraterra, da "il manifesto" del 12 Settembre 2007
Sul lato della domanda, stanti gli attuali sistemi produttivi, cambiano di più il clima la chiavetta dell'automobile o il coltello tagliacarne? Tutt'e due; non ci sono dubbi rimasti. Anche se un recente articolo del New York Times dava conto di una diatriba in corso negli Stati uniti, con associazioni ambientaliste che continuano a sottovalutare il peso della zootecnia-mondo sull'effetto serra (oltre che nella crisi idrica, dei suoli, dell'inquinamento, della biodiversità) e gruppi di attivisti per i diritti degli animali che acquistano pagine su riviste ambientaliste per spiegare che ne uccide di più la bistecca del Suv, accusando (e questo giustamente) Al Gore e il suo film An Inconvenient Truth di non aver citato fra le cause del caos climatico l'alimentazione sempre più carnea dei terrestri. Sempre più carnea, visto che si fanno avanti folte nuove classi medie del Sud, prima vegetariano per forza. Una cosa è certa al di là di questo scontro fra le - assenti- ragioni degli automobilisti e dei «carnivori», scontro che si avviluppa su se stesso ora che il business degli agrocarburanti e quello degli allevamenti si contendono le terre. È certo che da compatire per le conseguenze del caos climatico non saranno i portatori di veicoli o le buone forchette ma le popolazioni che sono già ora in stato di insicurezza alimentare. O forse, lo saremo tutti un giorno. Mentre è in corso a Madrid l'ottava Conferenza Onu sulla desertificazione, la World Meteorological Organisation (Wmo) dell'Onu avverte che, tempo un decennio, l'avanzamento dei deserti e il degrado dei suoli agricoli porranno una minaccia grave all'approvvigionamento alimentare di una popolazione umana in crescita. Tutti i continenti sperimentano un maggior numero di disastri legati al clima: incendi e ondate di caldo, alluvioni e frane. I 6,3 miliardi di umani sono oggi nutriti da quell'11 per cento di superficie terrestre che può essere coltivata con buoni risultati, spiega la Wmo; ma saremo in grado di sfamare gli 8,2 miliardi di bocche previsti per il 2020, che è proprio dietro l'angolo? Manco a dirlo, le regioni più colpite saranno Africa, America Latina e parti dell'Asia: là il clima è già più estremo e le regioni aride sono più diffuse, dunque la riduzione della pluviometria e gli sconvolgimenti del regime delle piogge, che conosce ritmi sempre più imprevedibili, picchieranno di più. Ma anche l'Europa e soprattutto il Mediterraneo incontreranno un clima meno mite, in tutti i sensi. Per via degli intrecci ora mortali fra crisi climatica e crisi idrica, la riduzione della pluviometria e l'evaporazione più rapida delle riserve di acqua significheranno anche meno disponibilità per l'irrigazione, così come, a livello di centrali energetiche, per la produzione di quell'energia che serve anche ai macchinari agricoli; ne deriverà una perdita di produttività, sostiene la Wmo. In alcune regioni la desertificazione e la salinizzazione dei suoli è evidente da un po', ma in un futuro prossimo potrebbe interessare aree sempre maggiori, perfino nel Brasile, gigante della produzione alimentare. In Africa si accorceranno le stagioni agricole e caleranno i raccolti. Morale dell'incubo: la comunità deve trovare e applicare pratiche agricole innovative e capaci di adattarsi a questo futuro. Pratiche che preservino suolo e acqua. Aiuterebbe un ritorno alle policolture, invece della produzione monocolturale con uso intensivo di fertilizzanti. Ma pratiche agricole responsabili, come quelle suggerite dalla Wto, non basteranno. Fra gli strumenti obbligati nella doppia strategia di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici forse diventerà imperativa la scelta politica su cosa (far) produrre e per chi, manovrando su sussidi e disincentivi, come non si sta facendo. Insomma: o cibo (e salute) o mangimi; o cibo (e salute) o agrocombustibili. Solo così si interverrà al tempo stesso su gravi cause di caos climatico e su una delle sue conseguenze: l'insicurezza alimentare, liberando terre per il cibo.
|