c Cause strutturali della crisi climatica e globale - 29/04/2010 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
Home Capitolo
APRE CAPITOLO RASSEGNA STAMPA
RASSEGNA STAMPA
Invia questa notizia ai tuoi conoscenti
Home Sito
APRE IL SITO DI PROGETTO GAIA
[Data: 29/04/2010]
[Categorie: Sostenibilità ]
[Fonte: A sud]
[Autore: ]
Social network:                e decine d'altri attraverso addthis.com Tutti gli altri con: addthis.com 

Spazio autogestito Google


Cause strutturali della crisi climatica e globale

[Fonte: Bollettino Alai di Aprile 2010] Parlare della crisi climatica vuol dire parlare della crisi del sistema capitalista, o meglio della crisi del mondo fondato sul sistema capitalista e sul colonialismo, che per secoli hanno sfruttato senza limiti le risorse naturali, le culture e i popoli, i loro sapere e le loro conoscenze, nonché la forza lavoro di miliardi di persone, di tutti coloro che sostengono con il loro sforzo ed energie la vita delle società del pianeta. Pertanto il cambiamento climatico, che a questo punto può essere considerato come uno dei maggiori crimini commessi contro l’umanità e contro la Madre Tierra (Terra Madre, secondo le cosmovisioni di tanti popoli indigeni, ndr), è il sintomo più chiaro e paradigmatico di una crisi di civilizzazione che ha raggiunto i suoi limiti.


Un crimine che, contrariamente alle interpretazione ingenue ampiamente diffuse secondo le quali tutti saremmo colpevoli, ha responsabili con nomi e cognomi: i suoi contorni vanno dalle dirigenze delle fabbriche alle banche, dagli hotel di lusso ai tribunali di arbitraggio, dai gabinetti dei governi venduti ai progetti di “malsviluppo”, dalle conferenze dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale alle sedute quotidiane della borsa, dai territori distrutti alle nicchie di opulenza dei pochi ricchi del mondo che, con le loro decisioni e l’ansia per il lusso, non hanno esitato a mettere a repentaglio la vita di miliardi di esseri umani, di migliaia di specie vive, di innumerevoli ecosistemi del pianeta.


Questa struttura di sistemi di sfruttamento delle ricchezze nel mondo ha prodotto la maggiore concentrazione di gas effetto serra della storia e ha provocato, conseguentemente, un aumento della temperatura globale che già ora eccede la capacità di controllo e regolazione dell’atmosfera e del pianeta, superando le possibilità naturali. Cosicché solamente un’azione drastica di cambiamento del modello/paradigma potrà rappresentare un mutamento significativo. Le ripercussioni non colpiscono nella stesa misura. Sono i paesi del Sud, i cosi chiamati “in via di sviluppo” e i gruppi più poveri e vulnerabili delle società quelli che ne soffrono, nella maniera più inclemente, le conseguenze.


L’80% delle emissioni globali sono prodotte dalle industrie, l’energia e il consumo smisurato dei paesi più ricchi e più sviluppati che ospitano il 20% della popolazione mondiale. L’America Latina è responsabile di appena il 10,3% di queste emissioni globali. Questa differenza in termini di emissioni tra paesi sviluppati e in via di sviluppo non è stata mai presa in considerazione, sebbene sia stata evidenziata già più di 15 anni fa e sia stato firmato il Protocollo di Kyoto proprio a questo scopo. Dei 191 paesi che hanno firmato il Protocollo, uno dei più potenti e inquinanti (Stati Uniti: 20,2%) ha negato sistematicamente la sua ratifica, insieme ad altri che durante le negoziazioni della Convenzione non si impegnano ad arrivare ad accordi concreti per ridurre le loro emissioni bensì cercano di evitarne l’adempimento che gli esige il Protocollo di Kyoto archiviandolo e cercando accordi fragili e antidemocratici, senza meccanismi di controllo come l’Accordo di Copenhagen del dicembre 2009. Il carattere vincolante degli accordi in favore dell’umanità e l’ambiente è minimo se comparato con il peso vincolante della forza del capitale con le sue istituzioni e accordi. Questa situazione ha portato il pianeta e i suoi abitanti sull’orlo del baratro.


Le emergenze dovute allo squilibrio climatico si sono moltiplicate per 40 volte nell’ultimo periodo ed ogni catastrofe è una ferita attraverso la quale vediamo dissanguare la vita e che mostra la fragile vulnerabilità dei più poveri, dei popoli indigeni, delle donne, degli anziani e dei bambini di fronte alle calamità dovute alla crisi climatica. In questi giorni ci sono stati più di 300 morti nelle favelas brasiliane a cause delle insolite e torrenziali piogge che hanno inondato lo Stato di Rio de Janeiro, tanto da obbligare i sindaci della regione a chiedere l’interruzione delle attività delle centrali nucleari istallate ad Agra do Reis, a causa della loro enorme pericolosità per la popolazione.


Poco tempo fa, nella regione andina boliviana e peruviana, si sono registrate più di un centinaio di morti per smottamenti e inondazioni a Cuzco, nella Bolivia orientale ed altre regioni, mentre si sciolgono i ghiacciai, fonti di vita e di identità culturale. In altre regioni si sono registrati periodi di acuta siccità che hanno portato alla morte di migliaia di mandrie di bestiame. L’Europa e l’America del Nord questo inverno sono state colpite da inondazioni e tormente di neve, di insolite proporzioni. La sparizione di Venezia è un effetto evidente del cambiamento climatico di cui ancora non si parla. Il debito climatico è il debito storico.


I gas serra hanno cominciato ad aumentare nell’atmosfera a partire dalla rivoluzione industriale, ma le loro maggiori concentrazioni si sono verificate durante gli ultimi 40 anni, contemporaneamente al decollo del neoliberismo. Sono stati fondamentalmente i paesi sviluppati, i più ricchi, e quelli che hanno iniziato la conquista del mondo sottomettendo i loro popoli alla colonizzazione dei territori, allo sterminio dei suoi abitanti, alla negazione delle loro culture, quelli che hanno beneficato dello sfruttamento dei combustibili fossili, delle ricchezze minerali, della biodiversità e dei saperi locali. Sono loro i principali responsabili della crisi climatica, mentre i paesi del Sud globale sono quelli che ne soffrono di più le conseguenze. In questo modo i paesi del Nord devono pagare un enorme debito ecologico e climatico alle nazioni povere, un dibattito che è stato sollevato durante la preparazione della Conferenza sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite, evidenziando una delle relazioni più diseguali e squilibrate della nostra civilizzazione.


I paesi in via di sviluppo propongono che l’unica forma per pagare questo debito è attraverso riduzioni drastiche delle emissioni che possano ripagare il debito accumulato e possano mitigare efficacemente i cambiamenti prodotti. Allo stesso tempo queste riduzioni devono lasciare libero lo spazio atmosferico per lo sviluppo equo dei paesi in via di sviluppo, attraverso il trasferimento sostanziale di fondi per il Sud con l’obiettivo di affrontare i costi di adattamento, contribuire alla mitigazione del cambiamento climatico attraverso l’utilizzo di tecnologia adeguata, e quindi mediante il trasferimento di tecnologia fuori dalle regole private del commercio.


La mercificazione di tutto ciò che si trova di fronte i nostri occhi.


Il paradigma dominante della civilizzazione colonial-capitalista o capitalista-neocoloniale si fonda sulla legge secondo cui tutto ha un prezzo e che tutto può essere alterato per essere venduto. I principi fondamentali della vita, del diritto alla vita, degli equilibri e della diversità genetica vengono violati: l’acqua, la terra, il fuoco, l’energia e anche l’aria vengono mercificati, diventando territori occupati. L’esempio più chiaro è quello dell’atmosfera, oggi occupata dai gas effetto serra, l’80% dei quali vengono prodotti dal 20% della popolazione concentrata nei paesi più ricchi e industrializzati. Questo livello di concentrazione dei gas effetto serra rende impossibile l’esercizio del diritto allo sviluppo delle popolazioni che non sono riuscite a raggiungere livelli base di accesso ai diritti all’alimentazione, all’energia, al trasporto, alle infrastrutture fondamentali. Per di più mette in pericolo la stessa esistenza del pianeta e la sua stabilità.


La base di questo sistema mercantile si trova nelle istituzioni che stabiliscono e sviluppano le regole del commercio e quelle finanziarie che legittimano e approfondiscono il paradigma dominante: l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale (FMI), gli accordi commerciali come il NAFTA (Accordo Nordamericano per il Libero Scambio) e il CAFTA (Accordo Centroamericano per il Libero Scambio), i quali impongono una serie di norme, meccanismi e condizionalità per favorire la “crescita”.


Queste regole e norme vanno mano nella mano con l’irrazionalità neoliberale per la quale lo spreco, l’annullamento della biodiversità genetica, l’inquinamento delle fonti acquifere e della vita, la mercificazione dei beni comuni, il sovra sfruttamento delle risorse della terra, l’uso eccessivo dell’energia nella produzione e trasporto delle merci contribuiscono in misura crescente non solo ad una maggiore emissione di gas effetto serra ma anche ad una impronta ecologica del tutto insostenibile. Secondo i dati del rapporto WWF del 2009 attualmente l’impronta ecologica dell’intervento umano supera di un 30% la capacità di rigenerazione della biosfera. Secondo la stessa fonte la prima volta che si è registrato questo deficit tra ciò che si consuma e ciò che la terra è in grado di rigenerare è stato negli anni ’80, in coincidenza con l’inizio del Consenso di Washington, responsabile della formulazione di un piano globale in cui l’investimento privato veniva concepito come la chiave dello sviluppo.


Il modello di sviluppo e la rottura con la Madre Terra.


Un’altra ragione strutturale del cambiamento climatico ha le proprie radici nella forma e modello dello sviluppo sostenibile, la cui definizione fa perno sul mantenimento delle condizioni per le future generazioni; dal momento che non prende in considerazione una visione olistica delle interrelazioni vitali con la natura, non necessariamente presuppone un equilibrio con la natura/Madre Terra: “Soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni” (Nazioni Unite). Come si può notare il concetto e la pratica dello “sviluppo sostenibile” mantengono le visioni mercantiliste ed estrattive, ovvero la sostenibilità viene definita sulla base di un approccio androcentrico, estrattivo e fondamentalmente basato sul consumo di fonti di energia fossili.


Sullo sfondo di questa visione vi è la rottura del rapporto tra la civilizzazione umana e la natura, propiziata dalla cultura occidentale capitalista, secondo la quale la terra è solamente una “risorsa” e un territorio da occupare. Rapporti e studi molto seri affermano che l’intervento umano ha ormai superato le stesse forze di rigenerazione della natura e rappresenta un vero pericolo per gli equilibri raggiunti dopo anni di processi evolutivi delle specie.


Da ciò si deduce l’importanza e la valenza di tutti i processi locali e i movimenti sociali che nel mondo stanno cercando di ridare un significato alla natura mediante il concetto di Terra Madre e riaffermando che la natura non è una risorsa, bensì la “nostra casa”, la nostra Terra Madre.


Sistemi finanziari e sistemi economici.


Risulta fondamentale analizzare, nell’ambito di queste cause strutturali, anche i meccanismi finanziari che governano il mondo. Queste strutture finanziarie si sono articolate con il fine di continuare ad estrarre risorse dai paesi in via di sviluppo favorendo le grandi multinazionali e i paesi più potenti. Il debito è uno degli esempi più chiari di questi meccanismi che non solo impoveriscono i popoli ma che fanno sì che le multinazionali impongano ai paesi in via di sviluppo politiche neoliberali che in fin dei conti favoriscono loro stesse. Come è accaduto nei due decenni degli anni ’80 e ’90, con i processi di liberalizzazione e riduzione del potere regolatore degli stati nazione a favore del potere delle multinazionali. Di questi esempi ne abbiamo migliaia, come il caso dei tribunali di arbitraggio che si permettono di giudicare i paesi perché le imprese hanno perso i propri profitti a causa della legislazione locale riguardo l’ambiente, il lavoro, la salute, ecc.


La relazione tra questi sistemi finanziari/economici e la crisi climatica è chiara e diretta e si esprime anche nelle negoziazioni della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (CMNUCC, per la sua sigla in spagnolo), nella quale si discute sulle modalità di adattamento dei paesi in via di sviluppo, riproponendo meccanismi già viziati. Per questa ragione i paesi in via di sviluppo propongono in alternativa che qualsiasi meccanismo di finanziamento deve inserirsi nell’ambito di un controllo multilaterale, trasparente, democratico e non condizionato al finanziamento per adattamento.


Ancora più grave risulta essere la possibilità che alcuni paesi sviluppati, cercando di eludere le proprie responsabilità e impegni multilaterali, riversino i loro fondi per la cooperazione verso fondi per il finanziamento contro il cambiamento climatico, ciò che già è avvenuto nelle ultime proposta avanzate dal parlamento dell’Unione Europea. I paesi sviluppati hanno offerto 30.000 milioni di dollari, nel periodo 2010-2012, e 100.000 milioni entro il 2020 (Accordo di Copenhagen). E’ una somma irrisoria se si considera, come suggerisce il G77, che i costi a cui andranno incontro i paesi in via di sviluppo supereranno il 5% del Prodotto Nazionale Lordo dei paesi sviluppati (1.900.000 milioni di dollari), e se consideriamo quello di cui avrebbe bisogno solamente un paese devastato come Haiti (la cui tragedia non è stata dovuta al cambiamento climatico ma che è un esempio della vulnerabilità dei paesi più impoveriti), ovvero circa 11.000 milioni di dollari.


Il dibattito dovrebbe mettere in discussione gli stessi sistemi economici che danno priorità al lucro e alla redditività invece dell’efficienza dei servizi e della salute dei popoli e della natura. Gli indici di crescita economica di una società vengono misurati sulla base degli investimenti, dei valori della borsa, ma non esistono indicatori che misurino quanto potrebbero essere benefico per una società un uso distinto del tempo, delle risorse umane, il dare priorità ai settori che richiedono più attenzione e risorse economiche, ecc. In questo senso l’economia femminista ha offerto molti elementi di spunto per cercare alternative. Il controllo dei territori, le migrazioni obbligatorie e gli accordi d’integrazione.

Infine dovremo analizzare, nella prospettiva delle cause strutturali, il tema del controllo del territorio. Il cambiamento climatico sta producendo a livello mondiale una riconfigurazione geopolitica a causa degli spostamenti forzati su grande scala di persone e popolazioni, delle perdite di territorio e processi di scioglimento dei ghiacci che permetteranno l’accesso alle ricchezze naturali valutate per il loro valore economico come il petrolio e i minerali.


Secondo stime dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM) più di 200 milioni di persone saranno, entro il 2050, “migranti climatici”, ovvero espulsi dai loro territori e in cerca di un luogo nel mondo dove poter vivere. Già oggigiorno circa 40 milioni di persone sono state dislocate dai propri luoghi di origine a causa degli impatti delle attività minerarie e delle industrie altamente inquinanti. Allo stesso tempo, senza nessuna sensibilità, le grandi potenze e i paesi “sviluppati” rendono sempre più restrittive le loro legislazioni sull’immigrazione e portano avanti piani perversi di reclutamento etnico.


Più di un decennio fa si stimava che vi erano più di 25 milioni di persone obbligate ad abbandonare i propri territori di origine per motivi ambientali come l’inquinamento, la degradazione dei suoli, la siccità e i disastri naturali. Oggi i “rifugiati ambientali” sono di più dei rifugiati per motivi politici e per guerre (OIM). La cosa più inquietante di tutte è che i paesi industrializzati, invece di rendere più flessibili le regole sull’immigrazione, si dedicano a definire regole e pratiche sempre più draconiane per evitare e controllare le migrazioni. Fra i tanti esempi si possono citare il muro della vergogna che separa gli Stati Uniti e il Messico e la Direttiva del Ritorno dell’Unione Europea. A ciò si devono aggiungere le numerose manifestazioni xenofobe e quasi fasciste che producono queste visioni.


Negli Stati Uniti sono entrati in vigore programmi di controllo dei migranti messicani che richiedono la partecipazione attiva della popolazione civile statunitense (mediante la creazione di pattuglie) e la vigilanza elettronica delle frontiere (telecamere e TV). In Italia si sono registrati scontri vergognosi e xenofobi contro la popolazione immigrata (fonte BBC).


Tutto ciò mette in discussione i così chiamati accordi di integrazione che si moltiplicano nel pianeta ma che sono finalizzati solamente a favorire la circolazione delle merci e creare condizioni sempre più vantaggiose per gli investimenti, spesso destinati alle attività estrattive, dipendenti dal petrolio, spogliatrici delle risorse naturali, che non affrontano il problema della circolazione, dei diritti umani e del lavoro delle persone. Soprattutto questi accordi non affrontano il tema del cambiamento climatico e della crisi globale, che non solo provocherà catastrofi che richiederanno ingenti somme di denaro per farvi fronte ma anche di infrastrutture e norme per affrontare il tema delle migrazioni per ragioni climatiche e finanziarie, frutto del debito storico del Nord verso il Sud e conseguenze delle politiche vigenti di accumulazione di ricchezze.


L’aspetto positivo è che la crisi globale, e specialmente la crisi ambientale, hanno messo in evidenza la necessità di cambiare il mondo, di cambiare i paradigmi, di cercare di ristabilire l’equilibrio con la Terra Madre e di eliminare le profonde ingiustizie e iniquità di un sistema che si sta mangiando il mondo a pezzettini. La forza dei popoli è di fronte a un banco di prova per ridare significato alla vita nel pianeta e rafforzare la solidarietà e la giustizia.


Elizabeth Peredo Beltrán è direttrice della Fondazione Solón, Bolivia. Pubblicado nella rivista “América Latina en Movimiento”, nº 454

http://www.alainet.org/publica/454.phtml


Traduzione di Andrea Meloni

PARTECIPA ALLA CAMPAGNA "IO FACCIO LA MIA PARTE"

 

Per il nostro Emporio... clicca!CLICCA PER IL NOSTRO EMPORIO

 

Spazio autogestito Google