c Marxismo Ecologista: al di là della crisi economica. II parte - 29/04/2010 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 29/04/2010]
[Categorie: Economia ]
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Marxismo Ecologista: al di là della crisi economica. II parte
Seconda Parte del Saggio in 5 punti di Ignacio Sabbatella: Al di là della crisi economica: sussunzione reale della natura al capitale e crisi ecologica

3. La crisi ecologica dal punto di vista del marxismo ecologico


Come abbiamo anticipato nell'introduzione, la crisi ecologica si manifesta tanto nel degrado ambientale che le classi privilegiate globali discutono in termini di cambiamento climatico che nei problemi di approviggionamento dei beni naturali, a causa della loro riduzione o del loro esaurimento. È interessante osservare che tali beni sono, in misura sempre maggiore, resi proprietà privata, mentre gli scarti creati dalla produzione capitalista, come i gas effetto serra o gli scarichi industriali, sono rilasciati nell'atmosfera o nei corsi d'acqua: in principio, spazi comuni dell'umanità. In questo senso, James O`Connor fa uso di una metafora nella quale la natura “è un punto di partenza per il capitale, mai un punto di ritorno. La natura è un rubinetto economico e anche un tombino; un rubinetto, però, può esaurirsi e un tombino può tapparsi (...) IL rubinetto è quasi sempre di proprietà privata; il tombino di solito è di proprietà comune” (O´Connor, 2001:221).


Il marxismo ecologico vuole esplorare le relazioni tra economia e natura, più precisamente, analizzare la contraddizione tra capitalismo come sistema autoespansivo e natura, insitamente non autoespansiva. O`Connor riprende le condizioni di produzione del capitale, a cui anche Marx accennò nei libri della Grundrisse, e le definisce come tutto ciò che rientra nel quadro della produzione capitalista, trattato come una merce anche se non è prodotto come queste. Significa che non sono prodotti del lavoro, quindi non hanno un valore ma un prezzo(3), data la logica mercantilista del capitale e l'appropriazione privata. Sono quelle che Polanyi (1989) ha chiamato “mercanzie fittizie” (4).


Le condizioni di produzione si compongono di tre parti: le condizioni esterne o ambiente (capitale naturale), quegli elementi naturali che sono presenti sia nel capitale costante che nel capitale variabile, sui quali ci concentreremo. Le altre componenti sono le condizioni personali (capitale umano), ossia la forza lavoro; e le condizioni “comuni” generali (capitale comunitario), le infrastrutture e l'arredo urbano. Il problema è che queste condizioni non sono disponibili nella qualità, al momento e nel luogo richiesti dal capitale. È necessaria la regolamentazione statale, in modo tale che diventino politicamente rilevanti, visto che lo stato interviene proprio per mediare tra capitale e natura.


Fino a metà degli anni Settanta, gli stati nazionali consideravano il petrolio, il gas, le miniere, la terra e l'acqua come risorse geopoliticamente strategiche, mantenendole come proprietà statale o esercitando un rigoroso controllo su di esse (Giarracca, 2006). Con l'avvento del neoliberalismo si sono attuate politiche di deregolamentazione, liberalizzando i mercati dei beni naturali e privatizzando le imprese pubbliche che prima le amministravano. Lo Stato, in questo modo, passa al mercato funzioni chiave nella regolamentazione delle condizioni di produzione, trascurando al tempo stesso di attivare un controllo per assicurare la protezione dell'ambiente. Si verifica la massima espressione della sussunzione reale della natura al capitale. È, tuttavia, l'inizio di una crisi inedita per il capitalismo e la storia dell'umanità. L'allocazione dei beni da parte del mercato è insitamente non pianificata e si regge sull'ottenimento di profitti e sulla concorrenza. Il capitale tende alla distruzione e all'esaurimento delle stesse risorse (5), generando scarsità e aumento dei costi così come delle spese improduttive.


Oltre alla domanda di mercato, un altro fattore che contribuisce simultaneamente al “valore” delle condizioni naturali di produzione sono le lotte ambientali, che cercano di determinare i limiti nell'uso e l'appropriazione della natura. Non sono i prezzi, ma i movimenti ambientalisti che rendono evidenti i costi ecologici e che spingono affinché questi vengano internalizzati dalle imprese. Per questa ragione, si tratta di lotte anticapitaliste.
Nel marxismo classico il soggetto di cambiamento è, di base, il movimento operaio, visto che il fuoco dell'analisi è unicamente sulla contraddizione capitale-lavoro ed il problema del capitale nella realizzazione del valore e del plusvalore, ragione per la quale il sistema tende sempre alla crisi di sovrapproduzione. Al contrario, il marxismo ecologico include l'analisi di quella che viene chiamata la seconda contraddizione del capitale, quella tra capitale e natura. Il capitale mina le sue stesse condizioni di produzione quando tratta gli elementi della natura come merci e quando rovina senza scrupoli l'ambiente, soprattutto se la regolamentazione statale è debole o inesistente. Il movimento ambientalista non rimpiazza l'operaio, ma agisce su un aspetto complementare delle contraddizioni capitaliste. Una forma ulteriore di crisi si apre per il capitale: il rincaro delle materie prime e la internazionalizzazione dei costi ecologici possono scaturire un problema di produzione del plusvalore con una tendenza verso la crisi di sotto-produzione. Per il marxismo ecologico esiste una barriera esterna all'accumulazione di capitale (O´Connor, 2001).


Nei periodi di espansione dell'accumulazione di capitale, aumenta la domanda di materie prime, di energia e, di conseguenza, la generazione di sotto-prodotti non desiderati (danni, gas effetto serra, etc.). La crisi ecologica si può manifestare in termini monetari per il capitale con l'aumento dei costi dell'energia o degli strumenti di vita (come è recentemente successo con i prezzi del petrolio e degli alimenti) e con l'aumento delle spese improduttive di ripristino dell'ambiente. La difficoltà nel produrre plusvalore può scatenare una crisi economica di sotto-produzione.


Questo, però, non significa che le crisi economiche non causino pressioni sulla natura. I capitali individuali cercano di difendere o riappropriarsi dei propri guadagni diminuendo o esternalizzando i costi e provocando, come effetto non voluto, la riduzione della “produttività” delle condizioni di produzione, la quale a sua volta innalza i costi medi. Stimola, anche, l'incorporazione di nuove tecnologie che degradano l'ambiente, così come la riesumazione di vecchie tecnologie pericolose per l'ambiente. In maniera simile, il tentativo di ridurre il tempo di circolazione del capitale conduce a una minore preoccupazione verso gli impatti ambientali. (O´Connor, 2001: 219)


Si potrebbe rispondere che le crisi economiche bloccano il finanziamento di progetti dannosi per l'ambiente, come un'impresa mega-estrattiva, o fanno cadere la domanda di materie prime e di energia. Questi freni, però, risultano sempre momentanei per il capitale. Le crisi sono importanti soprattutto all'interno del proprio regime di accumulazione perché sono momenti di ristrutturazione, di bancarotta, di fusione e, in definitiva, di centralizzazione che preparano il campo per una produzione di scala ancora maggiore.


È interessante analizzare brevemente alcune conseguenze del mercato dei combustibili fossili, il regime energetico del quale si sta servendo il sistema capitalista. L'uso predominante del petrolio e del gas ha elevato esponenzialmente la produttività, ma ha provocato l'alterazione dei principi sui quali questo mercato si era fondato. La produzione di entropia è aumentata e, attualmente, ha acuito la crisi legata all'irreversibile esaurimento dei combustibili fossili. L'aumento esponenziale del prezzo internazionale del petrolio durante il 2008 ha inasprito la crisi economica che già era in corso. Ha fatto salire alle stelle i costi dell'energia, quindi, della produzione industriale e agricola. A sua volta, ha influito in maniera determinante sull'aumento dei prezzi alimentari.


Un elevato prezzo internazionale del petrolio, inoltre, stimola l'espansione di nuove e dannose fonti di energia così come il risorgimento di fonti vecchie e dannose. Da una parte spinge la produzione di agrocombustibili a partire dall'etanolo (mais e canna da zucchero) e del biodiesel (soia) che competono con la produzione degli alimenti e peggiorano, ancora di più, la crisi alimentare. Alcune previsioni ottimiste indicano che il contributo dei biocombustibili al consumo di energia mondiale per il trasporto quintuplicherà: attualmente è appena sopra l'1%, nel 2020 sarà vicino al 5 o al 6% (Banco Mundial, 2008: 57). Dall'altra parte, si sente riparlare di centrali nucleari, pur con i rischi già conosciuti per l'ambiente. Secondo l'Organismo Internazionale dell'Energia Atomica (IAEA), nel 2008 è iniziata la costruzione di 10 nuovi reattori nucleari, la maggiore quantità annuale dal 1985. Alla fine del 2008 si sono contati 44 reattori nucleari in costruzione e un totale di 438 attivi, i quali contribuiscono al 14% della elettricità mondiale (IAEA, 2008: 1).


L'aumento del petrolio, infine, rinnova l'interesse per l'espansione della frontiera di estrazione, ossia incombono nuove minacce in aree di importanza ecologica un tempo riserva naturale. È quello che succede, per esempio, con l'Amazzonia peruviana, dove nuovi progetti petroliferi minacciano di distruggere la biodiversità e sfollare la popolazione in maggioranza indigena che vive in esse. Scatena più grandi diseguaglianze ambientali e un conflitto ambientale di proporzioni enormi, argomenti che vedremo nel prossimo capitolo.


4. Conseguenze: disuguaglianza ambientale e conflitti ambientali


Fino a questo punto abbiamo visto le caratteristiche specifiche del modo di produzione capitalista per quello che riguarda la sua relazione con la natura e le crisi inerenti allo stesso. Adesso è necessario analizzare come le sue azioni predatorie non danneggino tutti nello stesso modo.


Esistono due forme nelle quali si manifesta la disuguaglianza ambientale: la disuguaglianza nell'accesso e al controllo dei beni naturali e la disuguaglianza nell'accesso a un ambiente sano. La prima forma si riferisce alle asimmetrie di potere esistenti per disporre, trarre profitto e utilizzare i beni essenziali per la vita, quali l'acqua, la terra e l'energia. A questi dobbiamo aggiungere la pesca che serve d'alimento a una moltitudine di comunità che vivono vicino ai fiumi, ai laghi o ai mari. Anche le medicine ancestrali dei popoli originari sono oggetto di appropriazione delle multinazionali che le brevettano senza alcun riconoscimento. A questa forma di appropriazione si è dato il nome di biopirateria. Lo stesso accade con i geni umani, come abbiamo visto.
La seconda forma è legata alla protezione dell'ambiente e con le asimmetrie di potere nella distribuzione del degrado ambientale derivante dalle attività produttive, a partire dall'inquinamento dell'aria, dell'acqua, dei cibi provocata dalle industrie, i trasporti, la gestione dei rifiuti o le grandi opere come dighe o complessi turistici.


Nel caso dell'attività estrattiva delle miniere e degli idrocarburi si coniugano entrambe le forme di disuguaglianza, visto che in tutto il mondo sono proprietà di poderosi capitali multinazionali a detrimento delle popolazioni locali, che inoltre soffrono di sfollamento territoriale. Si realizzano a bassi costi economici e altissimi costi ecologici, data l'utilizzazione di grandi quantità d'acqua, l'inquinamento chimico, la combustione di gas, etc. Risultano pericolose queste attività anche durante la fase del trasporto, sia per la rottura dei mineralodotti, oleodotti e gasdotti o le perdite delle navi petrolifere.
Dall'altro lato, la disuguaglianza ambientale attraversa diversi tipi di disuguaglianza sociale che generano nuovi attori danneggiati dagli stessi. Le azioni collettive (6) portate avanti da questi attori sono chiamate da Giarracca (2006) dispute per l'appropriazione o il mantenimento delle risorse naturali. Aggiungiamo in questa sede che sono anche dispute per l'accesso ad un ambiente sano o per la protezione dell'ambiente. In maniera simile, Martínez-Alier (2005) utilizza il concetto di conflitti ecologici-distributivi per intendere l'ineguale impatto dell'uso che l'economia fa dell'ambiente naturale.


Così nascono nuovi conflitti o dispute per vecchie relazioni ineguali, come il classico scambio disuguale tra i paesi del “Nord” e i paesi del “Sud” che, modellati dalle due forme di disuguaglianza ambientale, generano i termini imperialismo ecologico e debito ecologico. In secondo luogo, in ambito nazionale, le disuguaglianze di razza, genere e classe generano, rispettivamente, i movimenti contro il razzismo ambientale, l'ecofemminismo e l'ecologismo dei poveri (7).

In condizioni normali di accumulazione, l'appropriazione capitalista restringe progressivamente l'accesso ai beni naturali e genera una distribuzione degli effetti di degrado ambientale in misura maggiore sui poveri, i neri, gli indigeni, i contadini, etc. In tempo di crisi, sia economica che ecologica, la breccia della disuglianza ambientale si ingrandisce perché il capitale è disposto a salvarsi la pelle a qualsiasi prezzo, trasferendo i costi agli altri settori sociali.

5. Alcune riflessioni finali


La natura non può più essere lasciata fuori dalle analisi economiche, politiche e sociali. La crisi ecologica in corso merita l'utilizzazione di focus a tutto campo della realtà per comprendere le sue cause e le sue conseguenze. La sua coniugazione con la recente crisi economica mondiale non lascia margini a dubbi contro lo smantellamento delle fondamenta del sistema di produzione e riproduzione capitalista. Vediamo che l'economia classica e la economia neoclassica non possono dare risposte adeguate, dato l'individualismo metodologico dalle quali traggono origine.


La teoria marxista tradizionale si concentrava in misura minore sulla complessità del mondo naturale rispetto alla relazione tra capitale e lavoro, ma la sua base critica permette di mettere a nudo le forme in cui il regime capitalista di produzione feticizza la natura. Attraverso la proposta del marxismo ecologico abbiamo fatto emergere la seconda contraddizione del capitale, tra la illimitata accumulazione capitalista e i limiti posti dalla natura; tra la riproducibilità e la circolarità del capitale e la irreversibilità dei processi naturali. Abbiamo anche potuto rimettere in luce il vigore del carattere duale del lavoro e del processo di valorizzazione studiati da Marx.


Abbiamo potuto, nello stesso modo, ricostruire la logica dell'appropriazione privata e della mercificazione della natura insita nel capitalismo e nel processo di sussunzione reale della natura al capitale. I beni naturali, in quanto condizioni di produzione, sono inseriti nell'orbita del commercio come mercanzie fittizie con un prezzo e, per questa ragione, sono soggetti a sfruttamento illimitato. Le riforme neoliberali hanno debilitato la regolamentazione statale in un modo che ha lasciato il capitale padrone e arbitro della sua stessa logica. Dato che il capitalismo, come sistema autoespansivo, entra in conflitto con le frontiere naturali, il risultato di questi processi è una tendenza verso la crisi di sotto-produzione, nella quale il cammino del capitale verso l'appropriazione del plusvalore diventa più difficile a causa dell'esaurimento o la riduzione dei beni naturali e di fronte al progressivo aumento delle spese improduttive per affrontare il degrado ambientale.


Possiamo anche tracciare una tendenza del capitalismo mondiale all'approfondimento delle disuguaglianze ambientali. I costi della crisi ecologica saranno distribuiti in forma ancora più ineguale, al fine di sostenere i livelli di accumulazione. In un contesto di crisi e di crescente ineguaglianza, infine, è prevedibile l'aumento dei conflitti ambientali. Ai fini del nostro discorso, si può dire che i movimenti ambientalisti hanno una carica anticapitalista quando spingono per l'internalizzazione dei costi ecologici da parte del capitale. Buona parte di questi movimenti cerca, tra l'altro, nuove forme di relazione con l'ambiente.


Abbiamo dipanato l'intima interrelazione tra crisi economica e crisi ecologica. Possiamo affermare, dopo quanto esposto, che il capitale non può superare la crisi ecologica che ha imposto al mondo intero nello stesso modo in cui può aggirare la crisi economica. Le crisi economiche sono cicliche. La crisi ecologica non ha invece ritorno; al contrario diventa più profonda, se non si mutano i fondamenti della nostra formazione storica, economica, politica, sociale e ambientale.


Riferimenti:


(1) La introduzione del concetto “bene naturale” non è casuale né neutrale. Potremmo caratterizzarla come parte di una disputa annosa all'interno del mondo accademico, fondamentalmente innescata da alcuni movimenti sociali contro il concetto egemonico di “risorsa naturale” imposto dalla razionalità strumentale ed economicista propria del regime capitalista di produzione. Tra i beni naturali annoveriamo l'acqua, la terra, i minerali, le foreste originarie, la biodiversità e le fonti energetiche (fossili, eolica, idroelettrica, solare, etc).


(2) “L'Impronta Ecologica misura la quantità di terra e acqua biologicamente produttiva necessaria per produrre le risorse consumate da un individuo, una popolazione o un'attività, e per assorbire i danni che questi gruppi o attività generano, date le condizioni tecnologiche e le risorse manipolate. Vengono considerati gli ettari con produttività biologica media a livello mondiale. I calcoli dell'impronta utilizzano fattori di rendimento per tenere conto delle differenze nazionali nella produttività biologica (per esempio, le tonnellate di grano per ettaro nel Regno Unito comparato al rendimento in Argentina), e fattori di equivalenza per tenere conto delle differenze nelle medie mondiali di produttività tra i differenti tipi di paesaggi (ad esempio, la media mondiale dei boschi confrontata alla media mondiale delle terre agricole)” (WWF, 2008: 42).


(3) “Succede, dunque, che una cosa abbia formalmente un prezzo senza possedere un valore. In questo caso, l'espressione in denaro è qualcosa di puramente immaginario, come certe misure matematiche. D'altro conto, può anche capitare che questa forma immaginaria di prezzo nascondi una proporzione reale di valore o una relazione derivata da esso, come nel caso del prezzo della terra non coltivata, che non ha valore perché in essa non si è realizzato nessun lavoro” (Marx, 2000:64).


(4) Polanyi pensava alle origini storiche dell'economia del mercato come a un sistema auto-regolato. Per lui era imprescindibili definire, in maniera fittizia, l'uomo e la natura come merci. “La produzione è interazione tra uomo e natura; affinché questo processo si organizzi attraverso un meccanismo autoregolante di baratto e scambio, l'uomo e la natura devono essere attratti nella sua orbita; saranno soggetti all'offerta e alla domanda, ossia, dovranno essere trattati come merci, come beni prodotti per la vendita [...] L'uomo sotto il nome di forza lavoro, la natura sotto il nome di terra, sono diventati vendibili; la forza lavoro si è potuta comprare e vendere universalmente a un prezzo chiamato salario, mentre l'uso della terra si è negoziato con un prezzo chiamato rendita. Si è formato un mercato del lavoro e un mercato della terra, l'offerta e la domanda di ciascun mercato sono state regolate dal livello dei salari e delle rendite, rispettivamente; si è mantenuta costantemente la finzione che la manodopera e la terra si producevano per la vendita” (Polanyi, 1989:137)


(5) Marx aveva già qualche sospetto: “La produzione capitalista, pertanto, sa soltanto sviluppare la tecnica e la combinazione del processo sociale di produzione scavando nello stesso tempo le due fonti originarie di tutta la ricchezza: la terra e l'uomo” (Marx, 2000: 424).


(6) Prendiamo da Tarrow il significato di azione collettiva che “si converte in contenzioso quando questa è utilizzata da gente che non ha acesso regolare alle istituzioni, che agisce in nome di nuove o non accettate rivendicazioni e che si comporta in un modo che costituisce una minaccia fondamentale per gli altri e per le autorità” (Tarrow, 1997:24). Questa è la base dei movimenti sociali, però questo termine rimane riservato a quelle sequenze di azione che ricevono sostegno dalle reti sociali e a quei simboli culturali che permettono di mantenere alta la sfida di fronte a oppositori potenti. “I movimenti sociali sono lotte collettive iniziate da persone che condividono obiettivi comuni e solidarietà contro i gruppi privilegiati, gli oppositori e le autorità” (1997: 26).


(7) Per un approfondimento, vedere Sabbatella 2008.



Ignacio Sabbatella - Pubblicato nella Rivista Iconos, Flacso Ecuador, Nº 36, enero 2010 - http://marxismoecologico.blogspot.com

Traduzione di Valentina Vivona

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