Cari manager, fermate lo sviluppo
Al workshop della Nielsen Galimberti smonta il mito della produttività: «Un tempo si lavorava per soddisfare i bisogni, ora per crearli».
La crisi impone strategie per far crescere l’economia. Ma chi ne paga il prezzo? Cos’è la felicità? Siamo sicuri che la crescita economica la aumenterebbe? Non è piuttosto un meccanismo perverso quello del mercato che vede l’Uomo solo come consumatore e lavora per creare bisogni prima che per soddisfarli? Domande importanti che lo diventano ancora di più quando a farle è un filosofo e ad ascoltarlo ci sono quattrocento top manager. Dal giovedì a sabato, come ogni anno dall’85, la società americana di ricerca di mercato Nielsen ha riunito al Forte Village di Santa Margherita di Pula il gotha dell’economia italiana. Tra conferenze, tavoli di trattative e partite di calcetto in spiaggia, si sono incontrati i vertici di produzione industriale (come Guido Barilla), distribuzione (come Vincenzo Tassinari, presidente della Coop Italia), comunicazione (come Paolo Panerai, direttore ed editore di Class) e servizi (come Innocenzo Cipolletta, presidente delle Ferrovie dello Stato) per discutere come “Progettare il futuro, idee in corso per i mercati di domani”. E tra una relazione e l’altra su strategie e sistemi di ripresa economica, venerdì è arrivata la stoccata di Umberto Galimberti.
Sessantotto anni, 29 saggi (l’ultimo “I miti del nostro tempo”, Feltrinelli), due cattedre a Venezia come ordinario di Filosofia della Storia e di Psicologia Dinamica, Galimberti, prima ancora che con la filosofia, ha smontato l’ottimismo con i dati. «Per mantenere un certo livello di vita siamo diventati una società arroccata e aggressiva: se non ci danno il petrolio al prezzo che diciamo, andiamo a prenderlo con la belligeranza. La Terra non è più natura, è una risorsa da sfruttare, e l’Uomo è considerato solo in misura al suo inserimento nei cicli produttivi. Il 17% della popolazione mondiale, quella occidentale, consuma l’80% delle risorse della Terra lasciando il 20% ai restanti 5 miliardi e 200 milioni di abitanti. Nessun teorico dei sistemi può ammettere che questa ipotesi può consentire lo sviluppo». E per conciliare etica e businness propone una soluzione che difficilmente avrà un seguito: decrescere. Che in un convegno di industriali suona come una parolaccia.
«La crescita è diventata una forma mentis ineluttabile, quasi una regola di natura. Non è così. A prezzo di quali disastri ambientali avviene? Queste non sono cose che riguardano solo l’etica, confliggono con gli interessi perché se è vero che la Terra è la prima grande risorsa per la ricchezza, noi così la riconsegniamo e crolla il capitalismo». E l’etica, lasciati i panni di moralizzatrice, diventa grimaldello per rompere il muro che ci separa dalla felicità. «Decrescere significa cambiare mentalità, passare dal lavoro come produzione al lavoro come servizi, perché questo livello di crescita è scatenato dal meccanismo perverso che vede l’Uomo solo come produttore e consumatore. Un tempo bastava produrre per soddisfare i bisogni, adesso siamo arrivati al parossismo che si lavora per creare bisogni per non interrompere il ciclo della produzione». E se «la politica non è più il luogo della decisione perché per decidere guarda l’economia», il filosofo invita gli industriali a riflettere sulla trappola che ci siamo costruiti: il mercato ha sostituito la società.
Il risultato? «Non capiamo più cos’è vero, buono, giusto, bello. Anche l’arte ha senso solo se entra nel mercato. Ma così si riduce l’aria alla convivenza umana. È un cerchio troppo stretto dove circoscrivere l’esistenza. I prodotti stanno al posto di comunicazioni mancate, stanno al posto della felicità. Allarghiamolo questo concetto di Uomo perché questo che abbiamo non funzionerà a lungo».
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