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I granai si svuotano, i prezzi salgono
da "il manifesto" del 05 Dicembre 2007
L'epoca dei granai pieni sta per finire, anzi è già finita. Da ormai 5 anni il mondo mangia più cibo di quanto ne produca, avverte uno studio diffuso ieri a Pechino. E se finora le grandi nazioni hanno potuto evitare la crisi attingendo alle scorte, ora anche queste sono acese ai livelli più bassi degli ultimi 25 anni: così nel prossimo futuro vedremo grande competizione sui mercati mondiali per accaparrarsi gli stock di cereali, con prezzi in drastico aumento. La previsione è del international Food Policy Research Institute (Ifpri), una delle più ampie e autorevoli reti internazionali di ricerca sull'economia agricola (nel suo statuto dichiara di lavorare per diritto al cibo come un diritto umano fondamentale; è una delle 15 istituzioni di ricerca finanziate dal Cgiar, Consultative Group on International Agricultural Research sponsorizzato dalla Banca mondiale). Nel suo rapporto sulla «Situazione mondiale del cibo» (World Food Situation), l'istituto raccoglie dati in parte noti e completa un quadro allarmante. «I giorni in cui il prezzo degli alimentari calava sono finiti», ha dichiarato ieri Joachim von Braun, direttore del Ifpri e coordinatore del rapporto. La pressione sui mercati alimentari ha diverse cause. Aumenta la domanda di cibo, aumenta la quota di produzione agricola che finisce in agrocarburanti invece che in cibo, mentre intere regioni colpite da siccità e fenomeni climativi avversi vedono calare i raccolti. La domanda alimentare di grandi paesi come la Cina e l'India è un elemento che destabiliza i mercati internazionali. In Cina ad esempio (dove il Pil è cresciuto dell'11,5% nei primi 9 mesi di quest'anno), il benessere ha fatto aumentare la domanda interna di cibo più sofisticato, come ortaggi e carne; la maggiore domanda di cibo (quindi di terra da coltivare e acqua per irrigare) si scontra con la domanda di terreni e di acqua per l'espansione urbana e industriale. La produzione totale di cereali è declinata, in parte per fattori ambientali (desertificazione, degrado dei terreni), in parte perché si preferisce coltivare ortaggi (più redditizi); inoltre i cereali vanno sempre di più in mangimi per il bestiame, cioè la produzione di carne e pollame, e come se non bastasse vanno sempre di più in produzine di agrocarburanti. Il risultato è che i prezzi aumentano: in ottobre il governo ha annunciato che in un anno la carne di maiale è rincarata del 50%, i vegetali del 30% e l'olio da cucina del 34% - il premier Wen Jiabao ha dichiarato che combattere l'aumento dei prezzi alimentari è una priorità del suo governo. Tutto questo in prospettiva destabilizza i mercati internazionali: se la Cina si mette a importare in modo massiccio riso o grano, è prevedibile che i prezzi saliranno in modo sostanziale (bisogna rendere merito a Lester Brown, il fondatore del Earth Policy Institute di Washington, che lo va dicendo da anni). Il rapporto dell'Ifpri insiste sull'espansione degli agrocarburanti, che da sola spiega l'aumento del prezzo del mais di oltre due terzi entro il 2020 e dei semi oleaginosi del 50%. Anche il riscaldamento del clima e l'aumento dei fenomeni di siccità e desertificazione ha la sua parte: si pensi ad esempio all'Australia, uno dei grandi esportatori di cereali, dove parecchi anni consecutivi di penuria d'acqua hanno fatto crollare la produzione. Finora le scorte hanno permesso di compensare il calo della produzione, ma nei prossimi 12 o 24 mesi il rischio di crisi è assai reale, avverte l'Ifpri. E' ovvio che se la caveranno meglio i paesi più ricchi, che potranno spendere di più per importare stock sempre più limitati e cari, mentre soffriranno di più i paesi più poveri. Si pensi: il Bangladesh fa fatica a importare riso perché India, Vietnam e Ucraina hanno tagliato le proprie esportazioni. Inflazione e penuria potrebbero moltiplicare gli episodi di proteste e rivolte, una spirale di fame e instabilità.
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