Golfo del Messico, un disastro destinato a ripetersi?
La BP, pressata, stanzierà 20 miliardi di dollari per risarcire i danni del più grande disastro petrolifero della storia americana. Ma non si corregge la distorsione sistematica per cui i rischi delle industrie pericolose restano alla fine sempre a carico della collettività.
Alla fine BP pagherà, l’azienda, messa alle corde dai legislatori Usa nonché dal presidente Obama, istituirà un fondo da 20 miliardi di dollari per risarcire la devastazione causata dalla fuga di petrolio dalla piattaforma off-shore Deepwater Horizon: dai 30 ai 60mila barili al giorno (ma c’è anche chi parla di 100mila) che da due mesi continuano a riversarsi in mare. Quello che si sta profilando come il più grande disastro della storia petrolifera americana - un 11 settembre ambientale, lo ha definito Obama - ha modificato profondamente il rapporto della politica americana con l’industria petrolifera, al punto di arrivare ad esigere un rimborso non puramente simbolico dalla compagnia che ora, per creare il fondo da 20 miliardi, riporta Reuter, dovrà ricorrere a prestiti, vendite di asset e rinunciare a redistribuire dividendi.
Ma il fondo, una soluzione extragiudiziale voluta dal presidente Obama per far sì che il risarcimento fosse congruo e tempestivo, rischia di essere solo una toppa, probabilmente neanche sufficiente a pagare i danni: occorre rivedere il sistema con cui le compagnie si fanno carico dei rischi e, in generale, ripensare il sistema energetico disincentivando quelle fonti che pongono i pericoli più grandi. È questo che fanno notare diversi commentatori americani in relazione alla vicenda, ta i quali sei economisti ambientali (Robert Costanza, David Batker, John Day, Rusty A. Feagin, M. Luisa Martinez, Joe Roman) che firmano questo intervento sul blog Solutions.
Nel post si cerca innanzitutto di dare una stima a grandi linee del danno provocato nel Golfo del Messico: non solo le perdite arrecate ad almeno 20 tipi di attività economiche, più facilmente quantificabili, ma anche quelle dovute ai danni all’ecosistema. L’ecosistema del delta del Mississippi, per i benefici che rende (ad esempio protezione dagli uragani e sequestro della CO2), secondo un recente studio di economia ambientale citato nell’articolo, vale da 330 a 1.300 miliardi di dollari: molto più del valore di mercato della BP stessa (189 mld $). La stima del danno causato dalla perdita della Deepwater Horizon al solo ecosistema costiero, secondo gli autori dell'articolo, andrebbe così da 34 a 670 miliardi di dollari.
Pertanto il fondo da 20 miliardi – per quanto questo sia un risultato importante – rischia di ripagare solo una piccola parte del danno. Ma - quel che è più importante - è un’eccezione: il risarcimento massimo dovuto dalle compagnie petrolifere in casi del genere è di 75 milioni di dollari. Neanche l’“11settembre ambientale” della Deepwater Horizon è infatti riuscito convincere i politici americani ad innalzare il tetto massimo di risarcimento fissato dal Oil Pollution Act del 1990. Il rischio dell’industria petrolifera continua a essere sistematicamente scaricato sulla collettività .
“L’incidente della Deepwater Horizon, come la crisi del sistema bancario – spiegano i sei economisti – è il risultato di una mancanza di attenzione dei rischi a carico del pubblico. Le precauzioni da adottare si conoscevano, ma non sono state prese. Gli investimenti in sicurezza non sono stati fatti (…). Il problema fondamentale è che quando le compagnie causano danni alla collettività sono tenute a risarcirli solo in parte e dopo tempi lunghi. Questo dà ai privati un forte incentivo ad assumersi grandi rischi a spese del pubblico”.
Dal disastro del Golfo, scrivono gli economisti, dovrebbe venire lo stimolo per trovare un modo per cui le industrie pericolose internalizzino finalmente i rischi che creano. La proposta è quella di un’assicurazione obbligatoria che copra i danni di potenziali incidenti legati ad ogni impianto, calcolati con i metodi della contabilità economica ambientale. I petrolieri insomma andrebbero fatti pagare prima che succedano gli eventuali incidenti e non a disastro avvenuto. “Se anche per chi compera una macchina è obbligatorio assicurarsi contro danni a terzi, non vediamo perché questo non debba accadere per imprese con rischi elevati come quelle in questione”. La risposta ci permettiamo di darla noi citandoci (Qualenergia.it, Come ti socializzo i rischi di petrolio e nucleare): attività dai rischi potenzialmente enormi come le trivellazioni off-shore o il nucleare sarebbero economicamente insostenibili se non fosse la collettività a farsi carico di questi rischi. Ecco dunque il motivo per cui Barack Obama, pur avendo dato una sonora batosta a BP, non ha posto le basi affinché disastri del genere non si ripetano. Mettere fine alla distorsione sistematica per la quale i rischi e costi ambientali restano a carico della collettività - come fa notare Brent Blackwelder, ex presidente di Friends of the Earth e collaboratore del Center for Advancement of a Steady State Economy - vorrebbe dire negare le stesse scelte di politica energetica fatte ultimamante dal presidente Usa: ossia il rilancio del nucleare e delle trivellazioni off-shore lungo le coste americane.
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