La recensione. Per salvare il pianeta dobbiamo farla finita con il capitalismo di Hervé Kempf
"Per salvare il pianeta dobbiamo farla finita con il capitalismo". Detta così appare come minimo velleitaria la proposta, che è il titolo del libro, di Hervé Kempf, giornalista francese tra più autorevoli sui temi dell'ecologia e dell'economia. Ma in una fase di crisi economica ed ecologica come questa, è giusto interrogarsi anche provocatoriamente sulle cause delle crisi stesse e sul come superarle proprio attraverso un diverso modello economico.
In premessa Kempf spiega che "il futuro non è in un rilancio basato sulla tecnologia, ma in una nuova organizzazione della logica sociale. Le sfide di oggi impongono di uscire dalla logica del profitto massimo e individuale per creare economie cooperative, rispettose degli individui e dell'ambiente naturale. Il capitalismo si avvia a concludere la sua breve esistenza".
Affermazione che, a parer nostro, non è certo la fotografia dell'esistente dato che se è vero che il capitalismo non gode di una salute di ferro, le alternative ad esso non è che esattamente brillino di luce propria. Ma prima di arrivare alle conclusioni va dato atto all'autore di aver ben spiegato alcuni dei falsi miti moderni. Ad esempio il "miracolo" della produttività.
In particolare viene evidenziato come l'aumento della produttività stimolato dalla microinformatica ha portato alla diminuzione del costo dei prodotti manifatturieri ma soprattutto alla capacità "impressionante di trasformare e spostare materiali". "I microprocessori hanno invaso i macchinari, mentre i computer hanno permesso di ideare apparecchi più efficaci. L'informatizzazione delle linee non ha proiettato l'economia in qualcosa di immateriale. Piuttosto ha aumentato la quantità di materiali trasformati dall'attività umana".
Tranchant anche la spiegazione di che cosa sia oggi l'economia finanziaria: Nel novembre del 1980 Ronald Reagan veniva eletto presidente degli Usa. Un capitalismo disinibito assumeva il potere (...) Circa tre decenni dopo, l'economia finanziaria gestisce montanti di capitali trenta volte superiori a quelli scambiati nell'economia reale. Ciò significa che la speculazione sui valori di borsa e sulle monete si è totalmente sganciata dal valore dei prodotti concreti, a cui normalmente è legata. Il Pil mondiale (costituito dai beni e dai servizi) nel 2002 era di 32.000 miliardi di dollari; il totale delle transazioni monetarie invece arrivava a... più di un milione di miliardi di dollari. Il mercato finanziario mondiale è divenuto quindi "un sistema del tutto fittizio, nel quale si pagano i debiti creati dalla speculazione ricorrendo a nuovi impegni senza garanzia reale (...). L'inconveniente dei debiti è che si finisce sempre per pagarli, prima o poi. Il debito mondiale attuale ha il suo prezzo nel mondo reale, che i nostri brillanti economisti tuttavia dimentica sempre".
La fase attuale del capitalismo ha già conosciuto la sua prima tempesta finanziaria nel 1987, poi nel 1998, poi nel 2000. Quella del 2007 è la più importante e "non è un evento fortuito, ma il sintomo di una crisi generale della società del terzo millennio".
Il tema del libro, come detto, è l'uscita dal capitalismo e dunque Kempf prosegue nell'analisi: bisogna distinguere chiaramente il liberalismo dal capitalismo. Il liberalismo "mira a emancipare le persone dalle determinazioni trascendenti e dalle sudditanze definite da una condizione acquisita fin dalla nascita. Esso definisce in quale modo organizzare i poteri nelle città e deriva dal principio secondo cui ogni cittadino dispone di uguali diritti, che si traducono nella libertà d'espressione e nel sistema della democrazia rappresentativa.
Il capitalismo invece è "una condizione sociale in cui gli individui sembrano essere motivati solo dalla ricerca del profitto, accettando che sia il meccanismo del mercato a regolamentare tutte le attività che li mettono i relazione". Per Kempf il capitalismo è ormai "un fiore putrido" ma le alternative, che ritiene esserci, stanno fuori dal capitalismo appunto ma dentro l'economia di mercato.
Infatti pur riconoscendo la bontà delle buone pratiche personali sostiene che "non si avrà messe se le sementi non germineranno tutte in modo coordinato. Ciascuno, ciascun gruppo, potrebbe nel suo angolino realizzare la sua piccola utopia. Senza dubbio lo renderebbe felice, ma non cambierebbe granché del sistema, la cui forza discende dal fatto che gli ‘agenti' adottano un comportamento individualista. Allo stesso modo in cui ‘consumare verde' non cambia la logica di mercato universale, ‘coltivare il proprio giardino, alternativo' non minaccia in alcun modo il capitalismo, a cui importa che gli ‘agenti' siano divisi e agiscano senza coordinarsi".
Il cuore della questione è dunque "marginalizzare il principio di massimizzazione del profitto, ponendo la logica cooperativa al centro del sistema economico'.
La soluzione sta quindi dentro un'economia di mercato riconvertita alla riduzione dei consumi di materia e di energia. E anche qui Kempf ha le idee chiare: per diminuire il consumo di materia e di energia la prima idea che viene in mente è di migliorare l'efficacia dei processi: si scalderà altrettanto la casa con un minor dispendio di calorie, si produrrà lo stesso numero di stampi per cialde con meno elettricità. Tuttavia, questo progresso viene neutralizzato dall'effetto rimbalzo: il risparmio ottenuto con il miglioramento dei processi permette di aumentare il consumo del bene prodotto perché il prezzo diminuisce.
Serve dunque una politica apposita che si articoli su tre assi:
- riduzione delle disuguaglianze: l'abbassamento della mega-ricchezza modifica lo schema culturale dominante, nel quale la rivalità ostentata è orientata al consumo eccessivo degli oligarchi. Il prestigio non sarà più associato allo spreco;
- il sistema dei prezzi che incorpori l'impatto ecologico dei beni, o che non ostacoli l'aumento spontaneo del prezzo delle materie prime
- il razionamento: la parola fa paura, ma si applica a un realtà molto precisa, come il limite di velocità sulle strade, il divieto di bagnare le piante in caso di siccità, o il limite posto dal protocollo di Kyoto alle emissioni di gas serra. Il problema politico del razionamento è di operare la sua messa in funzione prima che l'evidenza della crisi lo faccia accettare senza discussioni, per via autoritaria.
Proprio quest'ultimo aspetto appare il più critico e anche Kempf lo ammette: la crisi ecologica richiede un cambiamento della rivalità tra le nazioni, perché non ci saranno né vincitori è vinti di fronte al disequilibrio delle regolazioni della biosfera, anche se il petrolio dell'Artico fa sognare le oligarchie di Russia e Canada. Nel migliore dei casi le perdite non saranno uguali. Le nazioni, e questo è un azzardo ma condivisibile, hanno o avrebbero "interesse a cooperare". Ma "le conseguenze della crisi ecologica sarebbero più gravi per i paesi del Sud e i paesi ricchi potrebbero essere tentati di cercare di adattarsi da soli. Pace e guerra hanno uguali possibilità".
Ecco noi siamo qui, cosa non ha funzionato finora è chiaro, dove bisogna mettere le mani anche, come e chi lo farà sono i due fondamentali anelli mancanti che ci separano tra un futuro sostenibile e uno di declino certo.
|