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[Data: 28/07/2010] [Categorie: Documenti;Alimentazione ] [Fonte: Pianeta Verde] |
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I dispiaceri della carne Controlli insufficienti. Allevamenti lager. Macellazioni clandestine. Ampio uso di farmaci. È allarme per gli animali che finiscono sulle nostre tavole. E ogni italiano ne consuma 92 chili l’anno Nel piatto c’è un filetto al sangue. O una costata di maiale. O un pollo al forno che aspetta di essere divorato. La forchetta è già a mezz’aria quando si affaccia un dubbio: ma in che percentuale, la carne macellata in Italia, viene controllata dai veterinari pubblici? Insomma: quanto possiamo essere certi che, nel cibo che stiamo mangiando, non siano contenute sostanze tossiche o comunque pericolose?
La prima risposta arriva da Francesca Martini, sottosegretario alla Salute: “Il consumatore italiano può stare tranquillo”, garantisce, “la sicurezza della filiera alimentare è assoluta, anche per la carne. Tutti gli standard europei vengono rispettati. I nostri veterinari sono un esempio di professionismo. Dunque non c’è da preoccuparsi”. O meglio: non ci sarebbe, se non si intrecciassero i dati dell’anagrafe nazionale bovina, dell’Istat e dell’Unione nazionale avicoltura con le statistiche del Piano nazionale residui, il programma ministeriale “di sorveglianza sulla presenza, negli animali e negli alimenti di origine animale, di residui di sostanze chimiche che potrebbero danneggiare la salute pubblica”. Da questo intreccio di analisi escono numeri poco entusiasmanti, scenari poco popolari. Nel 2009, ad esempio, la percentuale dei controlli sui bovini macellati (in tutto 2 milioni 949 mila 828) ha riguardato 15 mila 803 capi, ed è stata pari allo 0,5 per cento. Dei 13 milioni 616 mila 438 suini macellati, invece, i veterinari ne hanno controllati 7 mila 563, cioè uno striminzito 0,05 per cento. E ancora meno sono stati controllati gli 11 milioni 740 mila quintali di volatili macellati (tra polli, tacchini, oche e quant’altro), con un totale di 4 mila 316 verifiche e il record negativo dello 0,03 per cento (inferiore agli standard imposti dalle direttive Ue). “Il settore delle carni è una polveriera, ne paghiamo ogni giorno le conseguenze, ma nessuno ha interesse a sollevare la questione”, dice Enrico Moriconi, presidente dell’Associazione veterinari per i diritti animali (Avda). Un problema di prima grandezza, considerando che lo scorso anno gli italiani hanno consumato in media 92 chili di carne a testa, e che per il presidente di Assocarni Luigi Cremonini “i consumi sono destinati a crescere”. Eppure l’opinione pubblica è serena: “La gran parte della popolazione continua a non chiedersi cosa può nascondere una bistecca”, sostiene Moriconi: “Al massimo si agita quando scoppiano episodi di straordinaria gravità: come l’influenza aviaria nel 1999 e 2002, la cosiddetta mucca pazza nel 2001, o le carni suine irlandesi contaminate dalla diossina nel 2008″. Emergenze che la sanità italiana ha affrontato senza sbandamenti, va riconosciuto, adeguandosi velocemente ai protocolli internazionali. Ma la comune origine di questi allarmi è rimasta identica: “Una zootecnia suicida basata sugli allevamenti intensivi”, la chiama Roberto Bennati, vicepresidente della Lega antivivisezione (Lav). “Una strategia industriale che, partita dagli Stati Uniti nel dopoguerra, è arrivata in Europa travolgendo regole e tradizioni”. Anno dopo anno, ettaro dopo ettaro, al posto dei pascoli si sono imposti capannoni “dove gli animali vivono in condizioni di sovraffollamento, immersi nell’inquinamento dei loro stessi escrementi (pregni di ammoniaca per i bovini, e metano per il pollame), con limitate possibilità di movimento e reiterati bombardamenti farmacologici”. Non importa che anche la Food and agricolture organization, a nome delle Nazioni Unite, definisca queste strutture “un vivaio di malattie emergenti”. Malgrado la crisi, l’industria italiana delle carni nel 2009 ha fatturato 20,5 miliardi di euro. Ed è una cifra che colpisce, oltre che per dimensioni, per il confronto con la quantità di bestiame che muore all’interno delle nostre aziende zootecniche. “Nel 2008″, documenta la Lav, “sono morti in Piemonte 20 mila 700 bovini allevati. In Veneto sono arrivati a quota 24 mila 433. In Emilia Romagna ne hanno contati 18 mila 217 e in Lombardia 67 mila 996. È accettabile questo cimitero? E chi può dire, in buona fede, che non bisogna allarmarsi?” Discorsi scivolosi, comunque li si prenda. Non soltanto nel campo dei bovini, e non solo sul fronte della salute in senso stretto. Dice Nino Andena, presidente dell’Associazione italiana allevatori (Aia): “Siamo arrivati al punto che stanno meglio gli animali negli allevamenti, che gli esseri umani nelle loro case…”. E verrebbe da credergli, tanta è la disponibilità con cui presenta la zootecnia moderna. Ma poi uno arriva a Colombaro di Formigine, provincia di Modena, e trova una realtà come quella della Società agricola Colombaro. “Qui cresciamo 20 mila suini”, mostra stalla per stalla il titolare Domenico Bellei. E non è un bello spettacolo: ecco cinque maialini schiacciati, durante lo svezzamento, in ogni metro quadro; eccone altri quattro in un metro quadro tra i 70 e i 180 giorni di vita; ecco, ancora, gli 80 centimetri pro capite nei quali si trovano i suini all’ingrasso. E mentre una fila di bestie urlanti sale sul rimorchio che le porterà a diventare porchetta, Bellei fa un ragionamento schietto: “Anche noi preferiremmo allevare maiali con altri criteri, più rispettosi del loro benessere. Ci abbiamo pure provato, ma prevalgono le esigenze commerciali. Così rispettiamo le regole ed evitiamo le ipocrisie: se gli italiani pretendono l’etica da noi allevatori, accettino che i prodotti siano più cari. Altrimenti è soltanto teoria…”.
Parole condivisibili, per certi versi: ma anche incomplete. C’è molto altro, infatti, da dire sull’esistenza intensiva dei maiali. Per esempio che i tecnici dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), hanno presentato nel 2009 un’indagine sulla salmonella nei suini da riproduzione. E il risultato, accolto dal silenzio pneumatico dei mass media, è che il batterio risulta presente nel 51,2 per cento degli allevamenti italiani (superati dalla Spagna con il 64 per cento, l’Olanda con il 57,8, l’Irlanda con il 52,5 e il Regno Unito con il 52,2). “Quanto basta per ribadire che la carne, fuori e dentro l’Italia, è un vettore di rischio”, dice la biologa Roberta Bartocci. E lo scenario non cambia, aggiungono gli animalisti, spostandosi dai suini al pollame. “Sempre l’Efsa”, spiegano, “ha concluso uno studio sulle carcasse dei polli da carne, e la scoperta è che nel 2008 il 49,6 per cento dei campioni italiani era affetto da campylobacter (un batterio che, in caso di cottura non completa della carne, può provocare forti dolori addominali, febbre e diarrea), mentre il 17,4 mostrava tracce di salmonella”. “La verità”, segnala il responsabile dell’Unità operativa igiene degli allevamenti piemontesi Gandolfo Barbarino (membro anche delle commissioni ministeriali per il farmaco veterinario e i mangimi), “è che nel settore carni ci vorrebbe più trasparenza”. A partire dal famoso Piano nazionale residui, che dovrebbe individuare le sostanze illegali somministrate al bestiame per prevenire i malanni e velocizzarne la crescita. “Nel 2009″, racconta Barbarino, “su 33 mila 552 campioni analizzati, è risultato positivo appena lo 0,22 per cento. Ma non c’è da festeggiare. Il problema è che i riscontri si basano sulle analisi chimiche di fegato, carni, sangue e urine. E chi pratica il doping, in questo campo, ha raggiunto livelli di tale raffinatezza da sfuggire ai controlli”. Per i bovini la procedura è semplice e rigorosa, spiega un allevatore campano dietro promessa di anonimato: “Prima di tutto i trattamenti avvengono il venerdì, perché nel fine settimana i dopanti fanno in tempo a diventare invisibili”. Si tratta di cocktail che contengono “dieci, dodici sostanze proibite: in dosi ridotte ma con effetti esplosivi”. Nei primi due mesi, prosegue l’allevatore, “per far crescere alla svelta gli animali si dà estradiolo con testosterone o nandrolone. Poi si passa ai beta agonisti, che favoriscono la diminuzione del grasso, fino alla vigilia della macellazione. E nell’ultimo periodo, utilizziamo i cortisonici per aumentare la ritenzione idrica e definire al massimo la massa muscolare”. Tutto con la certezza dell’impunità totale, precisa: “Perché è vero che ci sono i controlli, ma altrettanto vero è che pochi veterinari hanno voglia di discutere con la camorra”. Anche per questo, spiegano gli addetti ai lavori, non bastano i 6 mila 500 veterinari in forza alle pubbliche amministrazioni (dei quali 5 mila 787 nelle Aziende sanitarie locali) a garantire la sicurezza delle carni italiane.
“Il malaffare e l’opacità mettono a dura prova qualunque sorveglianza”, dice il biologo Pierluigi Cazzola, responsabile a Vercelli dell’Istituto zooprofilattico sperimentale (Izs). Basti pensare al documento riservato, e non ufficiale, che il ministero della Salute ha discusso il 19 maggio con esponenti dei carabinieri, dell’Istituto di zooprofilassi e dell’Istituto superiore di sanità. “Al centro dell’attenzione, c’era la tabella del ministero con i farmaci prescritti agli animali d’allevamento”, spiega un testimone. “In particolare, si è chiesto alle Regioni di specificare quante volte nel 2009 i veterinari avessero legalmente permesso agli allevatori di utilizzare sostanze delicate per la salute animale (e quindi umana) come gli ormoni. “L’esito, poco credibile, è che in Emilia Romagna su 46 mila 383 prescrizioni ordinarie non è risultato nessun caso. Idem per la Sicilia, su un totale di 9 mila 641 prescrizioni. Per non parlare di Lombardia, Liguria, Campania, Calabria, Basilicata, Veneto, Friuli e Sardegna, che scaduti i termini di consegna non avevano ancora inviato i dati”. In questo clima, viene da pensare, tutto è possibile: non solo dentro i capannoni intensivi, ma anche nei pascoli di montagna. Raccontano gli allevatori abruzzesi onesti, ad esempio, che le loro parti non sono esenti da illegalità: “Si tratta”, spiega uno di loro, “delle marche auricolari, i sigilli che per gli animali equivalgono a carte d’identità”. Un tempo erano targhe metalliche, difficilmente trasferibili da una bestia all’altra. “Oggi invece sono di plastica, si staccano senza problemi, e vengono applicate alle bestie straniere, importate di nascosto ed escluse dal circuito sanitario”. Oppure, dice un altro allevatore, “c’è chi le marche auricolari non le mette proprio, allevando anche animali malati”. E non sono notizie per sentito dire. Per verificarlo basta salire fino ai pascoli di Pratosecco, sopra al comune di Camerata Nuova, e osservare un branco di circa 300 vacche. La maggioranza dei capi, va sottolineato, ha regolari marche. Altri, invece, no. “Il problema è capire di chi sono questi animali”, spiega Massimiliano Rocco di Wwf Italia, presente al sopralluogo, “e poi catturarli: tracimano ovunque, dai prati ai boschi, in un circuito di illegalità che parte dall’estero e arriva al nostro territorio”. Certo: non sbaglia François Tomei, direttore di Assocarni, quando sostiene che nel suo settore “il numero di controlli ufficiali in Italia è superiore a quello di qualsiasi altro Paese”. E fa bene a ricordare che “la filiera italiana ha un prodotto con caratteristiche organolettiche e nutrizionali particolarmente elevate”. Ma non è ancora sufficiente, a chiudere il discorso: “A tutelare i consumatori, sarebbe utile anche un’Agenzia per la sicurezza alimentare”, dice la senatrice Colomba Mongiello (Pd), “ma il governo ha pensato di inserirla tra gli enti inutili”. Ora, spiega, si è arrivati a una probabile retromarcia, ma se anche l’Agenzia dovesse partire mancherebbero gli indispensabili decreti attuativi: “La sensazione è che, in un Paese che mal tollera i controllori, non sia un ritardo casuale”. Quanto al fronte estero, e al rischio che i nostri confini siano attraversati da bestiame malato, o in ogni caso fuori controllo, è utile leggere i regolamenti comunitari. Soltanto così, infatti, si apprende che in Europa i controlli spettano alle nazioni che esportano bestiame, mentre gli Stati riceventi possono giusto svolgere “controlli per sondaggio e con carattere non discriminatorio”. Un obbligo che limita l’eccellente rete dei nostri Uffici veterinari per gli adempimenti degli obblighi comunitari (Uvac) e dei Posti di ispezione frontaliera (Pif). “Ma soprattutto”, commentano i veterinari, “fa guardare con sospetto al lungo elenco di nazioni che non segnalano alcuna positività delle loro bestie alle sostanze proibite”. Tra queste, recita la tabella disponibile del 2007, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Romania, Slovenia, Repubblica slovacca e Svezia Da qui, il baratro delle macellazioni clandestine. “Di recente”, dicono al Wwf Italia, “è arrivato sui nostri tavoli un dettagliatissimo documento sul ciclo illecito degli scarti di macellazione in Campania, Basilicata e Puglia”. Quattro pagine anonime in cui si spiega come pezzi di animali a rischio non vengano eliminati dopo la macellazione, ma rientrino nel sistema alimentare sotto la guida di organizzazioni criminali. Un’ipotesi da approfondire, anche perché in linea con quanto accaduto in Italia nel 2009. Lo scorso febbraio, per dire, il Nucleo anti sofisticazioni dei carabinieri (Nas) ha sequestrato 18 tonnellate tra carne e prodotti di origine animale: non solo trovati in pessimo stato di conservazione, ma privi della bollatura sanitaria. “Nell’occasione”, hanno scritto le agenzie di stampa, “sono stati individuati 102 centri di macellazione clandestina, con 113 persone denunciate per il mancato rispetto delle norme igieniche e la non corretta tenuta dei capi animali da parte degli allevatori”.
Ecco perché non stupisce una comunicazione riservata del Nucleo agroalimentare e forestale (Naf), nella quale si spiega che “le macellazioni clandestine interessano (in Italia, ndr) circa 200 mila bovini, che spariscono ogni anno dagli allevamenti ad opera della malavita”. Non c’è controllo che tenga. Non c’è multa che scoraggi. I dispiaceri della carne abbondano, anche se nessuno pare allarmarsi. “Per questo”, dice Walter Rigobon, membro della segreteria nazionale di Adiconsum (Associazione in difesa di consumatori e ambiente), abbiamo stretto un accordo in provincia di Treviso con il consorzio Unicarve e i supermercati Crai”. Di fatto, spiega, “garantiamo ai consumatori carne che abbia una tracciabilità totale: dalla nascita dell’animale fino al banco vendita”. L’iniziativa si chiama “Scrigno della carne”: “Perché la salute è un bene prezioso”, dice Rigobon. Anche più del business Fonte: L’Espresso
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