Gli agrocombustibili: il caso del Brasile
Siamo entrati nel 2008 terrorizzati: sommovimenti popolari colpivano ogni volta più paesi. Egitto, Camerun, Costa d’Avorio, Senegal, Etiopia, Filippine, Corea del Nord, Pakistan, Thailandia, Madagascar. Da quel momento, una trentina circa di nazioni hanno intrapreso conflitti contro i propri governi per un solo ed unico motivo: la fame. I prezzi dei cibi si erano quasi duplicati dal dicembre del 2007 quando, ad aprile, la popolazione di Haiti è scesa in piazza per ottenere del riso. Il paese caraibico sarebbe stato l’esempio più spettacolare e drammatico di una crisi che non si era mai vista prima. In quell’anno, i prezzi reali degli alimenti nel mondo hanno raggiunto il livello più alto degli ultimi trent’anni.
Alla fine del 2008, la FAO (Found and Agricolture Organization) ha reso noto che il milione di persone che soffrivano la fame nel mondo era aumentato, arrivando al miliardo.
Mentre l’organizzazione annunciava l’aumento del 52% dei prezzi degli alimenti, le aziende agricole annunciavano profitti mai visti. Anche se le circostanze sono cambiate ed i fattori di crescita dei prezzi adesso possono porsi in prospettiva, l’allarme non è ancora finito.
Aver presente quali erano e quali sono i fattori che minacciano la sicurezza alimentare in tutti i suoi aspetti (disponibilità, accessibilità, stabilità e utilizzo) è cruciale per evitare che il numero di persone che muoiono di fame nel mondo continui a crescere.
La FAO considera come fattori scatenanti della crisi del 2007 il basso livello di stoccaggio dei cereali, il raccolto negativo in gran parte dei paesi esportatori, il rapido aumento della domanda di commodities per la produzione di agro-combustibili e l’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio (che incide direttamente sui prezzi dei fertilizzanti e del trasporto). In relazione alla domanda, l’organizzazione continua a considerare gli agro-combustibili come un elemento fondamentale nell’aumento dei prezzi, anche se l’aumento della sua partecipazione nell’incenerimento degli agricultural supplies ha subito una decelerazione nell’ultimo anno, crescendo ad un ritmo più lento.
Tanto il cambiamento climatico, per quanto riguarda la produzione, come l’avanzamento degli agro-combustibili, dal lato della domanda, costituiscono le variabili di uno stesso scenario e sono profondamente relazionate. Molta gente, però, comincia già a domandarsi se la capacità degli agro-combustibili di ridurre le emissioni di carbonio sia reale e il suo impatto positivo comincia ad essere valutato anche in termini di alimentazione.
I sussidi alla produzione della canna da zucchero, del mais e di altre piante oleaginose arrivano a 11 miliardi di dollari all’anno e, secondo quanto affermato dal direttore generale della FAO in occasione del Vertice di Roma del 2008, questo denaro serve a deviare più di 100 milioni di tonnellate di cereali dal consumo umano. Molti economisti cercano di determinare in che misura gli agro-combustibili influiscono sui prezzi. Le stime sono ancora imprecise e possono variare tra il 3 e il 30 %. La mancanza di consenso inoltre riflette i diversi interessi in gioco, tanto nella difesa come nella questione dei combustibili derivati dalla bio-massa.
Combustibili biologici, povertà e cambiamento climatico: variabili di una stessa equazione
Gli agro-combustibili hanno ottenuto l’attenzione (e gli investimenti) del mondo nel nuovo secolo e crescono ad un ritmo impressionante.
Attualmente i combustibili biologici di prima generazione (prodotti a partire dalle coltivazioni alimentari) costituiscono l’1,5 % dei combustibili utilizzati nel trasporto e il 2% dell’area totale di piantagioni nel mondo. Perché tanta esagerazione? Si potrebbe pensare che il fatto che rappresenti appena lo 0,3% dell’offerta energetica sia sufficiente a mettere i dibattiti e le critiche in secondo piano e, inoltre, che sia
naturale che le imprese e i paesi investano in un alternativa al petrolio (un processo che, oltretutto, potrebbe essere il motore dello sviluppo rurale del Sud e che contribuirebbe a ridurre le emissioni di CO2). Gli impatti e le dinamiche scatenate dagli alti investimenti nel settore non lasciano raffreddare il dibattito, e ogni giorno sorgono nuove questioni riguardanti la capacità degli agro-combustibili di diminuire la povertà e favorire l’ambiente.
Gli agro-combustibili sono responsabili per il 7% dell’uso indiscriminato dei cereali e per il 9% dell’utilizzo degli oli vegetali. Questi valori arriveranno al 12 e al 20%, rispettivamente, nel 2018. Questo è indicatore del fatto che i prezzi degli alimenti non tendono ad abbassarsi nei prossimi anni e che i paesi che oggi sono coinvolti nella crisi alimentare devono prepararsi a spendere di più in importazioni. Questo dato dev’essere combinato con quello che tende verso una maggiore dipendenza alimentare, in particolare dei paesi africani, che vedranno ridotto il loro potenziale agricolo dal 15 al 30% fino alla fine del secolo in conseguenza del proprio cambiamento climatico. Dei 52 Stati meno sviluppati, 43 importano cibo.
Non sappiamo ancora in che misura i benefici che sono considerati a difesa degli agro-combustibili saranno concretizzati, in particolare per ciò che riguarda le emissioni di CO2, poiché vi sono caratteristiche peculiari di ogni coltivazione e gli impatti possono variare in base alle modalità di produzione.
D’altra parte, le conseguenze negative sono sensibili e visibili oggi, come nel caso della deforestazione a causa degli incendi in Brasile o la violenza per la terra in Colombia, e richiedono politiche che reinventino il modello attuale di investimento, coltivazione, raccolta, commercializzazione e trasporto.
Etanolo e schiavitù: prospettive basandosi sul modello brasiliano
L’elevato prezzo degli alimenti potrebbe contribuire, ovviamente, all’aumento delle entrate per la popolazione rurale, però tutto dipenderà dal modello di gestione e investimento che si applicherà. Come si può vedere nel caso del Brasile, oggi il maggiore produttore di etanolo derivato dalla canna da zucchero (il 60% del raccolto è destinato ai combustibili), la produzione è maggiormente controllata da grandi fabbriche (con un aumento della partecipazione del capitale internazionale negli ultimi anni) in grandi latifondi che riproducono e acutizzano un modello storicamente non equo nella ripartizione della terra e di monocoltura per l’esportazione. Tale modello influisce soprattutto sui piccoli agricoltori e, in maggior misura, sulle donne della campagna, che hanno minor accesso alle risorse necessari per essere partecipi di questo mercato.
D’altra parte, oltre a rendere ancora più vulnerabili i piccoli produttori (specialmente quelli che non hanno diritti legali), il modello basato sulla produzione della canna da zucchero praticato in Brasile minaccia le aree di riserva e delle popolazioni indigene, attanaglia altri settori, come quello della soia e dell’allevamento, facendo spostare le mandrie in zone della foresta Amazzonica, e minaccia l’ambiente poiché richiede un elevato consumo d’acqua e un impiego di grandi dosi di pesticidi (la canna da zucchero è la terza coltivazione nella quale si impiegano maggiormente questi prodotti).
Inoltre, è comune che le aree destinate alla coltivazione siano “ripulite” attraverso gli incendi, cosa che è incompatibile con la propaganda per l’utilizzo dell’etanolo come la grande alternativa ai combustibili minerali.
Ciò che è più scandaloso sembra essere l’utilizzo di mano d’opera schiavile. Circa il 45% dei 4234 lavoratori liberalizzati nel 2009 provengono dall’ambito della canna da zucchero. Secondo uno studio del centro di monitoraggio degli agro-combustibili della rete Reporter Brasil, più di un milione di persone sono impiegate in questo business economicamente promettente (è cresciuto del 7,1% tra 2008 e 2009), ma socialmente e dal punto di vista ambientale devastante. La maggiore fabbrica attualmente in funzione nello Stato, la gigante Cosan (che detiene anche i brands dell’Azucar Union e della petrolifera Esso), si trova nella lista nera del ministero del lavoro. Ancora, per ironia perversa della sorte, l’impresa riceve dal governo un certificato di buone pratiche all’interno del programma Etanol Verde e i sussidi del Banco Nacional de Desarrollo Economico y Social (BNDES).
Queste distorsioni sono quelle che creano il rifiuto da parte di diverse organizzazioni e movimenti al modello che si sta impiegando in tutto il paese come politica strategica.
Non è ancora stato raggiunto un accordo a livello nazionale tra le associazioni aziendali e i sindacati per stabilire i criteri per la spedizione di un certificato nazionale (il che, d'altra parte, non sembra rappresentare una barriera per il governo, che non solo negozia maggiormente i contratti di esportazione, ma sembra anche incentivare la concentrazione di questo mercato sempre di più in un numero minore di mani).
Intanto, si continua ad incentivare la popolazione di questi paesi più poveri del Brasile a migrare verso il sud-est e il centro-ovest, dove si coltiva maggiormente canna da zucchero e soia, rispettivamente. I lavoratori si indebitano pur di lasciare le loro città, che nello stesso momento perdono capacità produttiva e non ricevono alcun beneficio o rimborso. Lo stipendio medio è da fame: 1053 reali, circa 476 euro al mese.
L’acutizzarsi della povertà e principalmente la disuguaglianza nelle campagne è un altro fattore che si aggiunge all’interrogativo. Sono veramente gli agro-combustibili derivati da tagli alimentari fattori positivi nella lotta contro il surriscaldamento? Se teniamo in considerazione che la povertà è relazionata al degrado ambientale, come molti autori tendono ad enfatizzare, è possibile che il saldo sia negativo.
Questi sono alcuni dei motivi che sollevano sospetti sul modello che oggi è predominante nel mercato degli agro-combustibili. Specialmente perché, così come si presentando i trends, le coltivazioni e gli investimenti si concentreranno nei paesi del Sud, con più disponibilità di terre e con mano d’opera più economica. La sfida nell’affrontare le conseguenze della speculazione sulla terra e sugli agricultural supplies sarà, pertanto, dei paesi più poveri, nei quali i valori indicano che si avrà il maggior aumento della popolazione nei prossimi anni e nei quali l’alimentazione ha maggior peso nell’ambito familiare, arrivando a demandare tra il 40 e il 70 % delle risorse.
L’argomento richiede maggiore responsabilità, dibattiti e investimenti in un area che si è mantenuta ai confini della globalizzazione. La povertà rurale è una realtà che ha accompagnato i processi di industrializzazione e inserimento delle economie nello sviluppo nel commercio internazionale e oggi, come indica Sanchez (12), è quella sulla quale ricadono le responsabilità di arcar con il cambiamento climatico, con la produzione di energia e con l’alimentazione mondiale.
C’è un’uscita?
Il cambiamento climatico, oltre a sfide per l’umanità, presenta opportunità per lo sviluppo di nuovi mercati correlati alle energie rinnovabili e meno inquinanti.
L’attuale “febbre” dei bio-combustibili è il prodotto di questa situazione e risponde a interessi politici ed economici. Per i paesi, sono una risorsa strategica nella misura in cui migliorano la sicurezza energetica ed equilibrano la bilancia commerciale.
D’altra parte, sorgono inoltre come opportunità per sviluppare il campo attraverso la creazione di impieghi e l’aumento della rendita. La maggiore disponibilità in queste aree, con uno sfruttamento a livello locale e comunitario, inoltre potrebbe essere un fattore positivo, specialmente per le donne, e avrebbe potenziale per invertire la situazione di impoverimento della campagna che si verifica in molti paesi in via di sviluppo.
Il modello di sfruttamento che si applica oggi, però, risponde a logiche chiaramente speculative e sta facendo perdere i benefici che questo nuovo mercato potrebbe trarre alla popolazione rurale. Gran parte di colori che oggi sono protagonisti nell’acquisto di terre in Etiopia o Sudan per la produzione supplies per il mercato dei bio-combustibili, per esempio, sono fondi di investimento che non hanno avuto mai una relazione con il mercato delle comodità. L’impatto sui prezzi degli alimenti è una prova, così come il crescente scontento delle popolazioni contadine che si vedono sfrattate per l’aumento
del valore della terra.
Le soluzioni sono molte, così come la natura del problema, ma possono iniziare a svincolare due mercati distinti e, forse, incompatibili. L’instabilità dei prezzi degli alimenti per conto della domanda di energia può essere evitata, per esempio, a partire dall’investimento in alternative agli agro-combustibili di prima generazione, ossia, nella produzione di energia a partire da colture che non siano alimentari e che non alimentino dispute per le terre fertili, evitando così la speculazione e lo spostamento dei piccoli coltivatori.
Inoltre, è importante investire nel disegno di politiche per sfruttare le opportunità in termini di rendita e impiego che si possono generare con il mercato degli agro-combustibili. Senza le dovute iniziative politiche ed economiche, così come afferma la FAO, “queste opportunità non saranno distribuite equamente tra i diversi gruppi e individui”, e le donne e gli uomini della campagna saranno ancora più esclusi dai benefici dell’agricoltura commerciale. Questo si conseguirebbe attraverso timbri o certificati legittimi (e, perché no, attraverso lo sviluppo di una normativa internazionale vincolante) che il mercato degli agro-combustibili non sia basato nel sub empleo e nell’accaparrarsi grandi estensioni di terre, né nel degrado dell’ambiente. Se tre variabili di grande importanza al giorno d’oggi (cibo, energia e ambiente) confluiscono in questo dibattito, è indispensabile pensare a meccanismi di questo tipo. E oggi abbiamo le
istituzioni, le risorse, le informazioni e le persone per farlo.
Traduzione di Rossella Scordato
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