c Non sarà la green economy a salvare il mondo - 24/08/2010 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 24/08/2010]
[Categorie: Sostenibilità ]
[Fonte: A sud]
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Non sarà la green economy a salvare il mondo

Dopo anni di oblio neoliberista, sono tornati in auge i profeti della green economy revolution, del “Natural Capitalism” – per usare il titolo del fortunato libro del 1999 dei coniugi Lovins e di Paul Hawken, quest’ultimo di nuovo in vetta dei best seller ambientalisti con Moltitudine inarrestabile, Edizioni Ambiente, 2009. C’è voluta una crisi che ha fatto scricchiolare le fondamenta del sistema finanziario e del pensiero economico classico e un nero alla presidenza degli Stati Uniti d’America, ma alla fine siamo arrivati al Green New Deal, al keynesismo ecologico, alla terza rivoluzione industriale, alla clean-tech. Leggo a caso dagli inserti economici dei giornali: “Eco-nomia scaccia crisi. Efficienza e fonti alternative per battere la recessione e ripulire il pianeta” (inserto “Sviluppo sostenibile” del Sole 24 ore); “Una rivoluzione per il pianeta. Nell’ambiente la nostra salvezza” (intervista a Thomas Friedman su La repubblica); “Petrodollari ed energia pulita. Gli Emirati Arabi hanno deciso di investire i ricavi del greggio nelle tecnologie verdi” (Serge Enderlin per Internazionale); “Il clima vero business. Aumenta l’offerta di strumenti finanziari nel settore ambientale” (Il Sole 24 ore); “La speranza si chiama green economy. Obama ha cambiato i giochi: potrebbe essere l’inizio della rivoluzione sostenibile” (Il Sole 24 ore del 24/12/2008). Potremmo continuare a lungo.


I governi più attivi cominciano ad introdurre nuovi standard per incrementare l’efficienza energetica e la produttività nell’uso delle risorse prime, finanziano lautamente le energie rinnovabili, le ristrutturazioni bioclimatiche nell’edilizia, indicano ad esempio delle famiglie modelli di consumo più sobri, fanno appello alla responsabilità di impresa, promuovono i mestieri verdi, la riforestazione, il riciclaggio… Insomma sembra che le lezioni inascoltate del Wuppertal Institut e le conferenze del United Nations Environmental Program siano finalmente state prese sul serio. Ingegneri e imprenditori tornano a discutere di “Fattore 4” o “Fattore 10”, cioè della diminuzione di consistenti volumi di impieghi di energia e di materie prime nei cicli economici a parità di prestazioni attraverso l’introduzione di nuove tecnologie e buoni accorgimenti gestionali. Una svolta dopo trenta, quaranta anni di prediche al vuoto sulla crisi ecologica (il primo rapporto del Club di Roma è del 1972, il documento sullo sviluppo sostenibile “Nostro Comune Futuro” dell’Onu è del 1987, il primo summit della Terra a Rio è del 1992).


La green economy altro non è che il tentativo di dare applicazione pratica al principio dello “sviluppo sostenibile”; rendere convenienti (remunerative e profittevoli) le attività (industriali e di servizio) volte alla riduzione degli imput energetici fossili e delle altre materie prime impiegati nei processi produttivi, nonché penalizzare gli sversamenti, le immissioni, gli scarti di sostanze inquinanti che possono compromettere i “servizi naturali” forniti dagli ecosistemi. Insomma fare soldi con (non contro) l’ambiente. Un capitalismo “secondo natura”. Per tentare la sfida la prima regola che gli economisti dell’ambiente hanno prescritto è conteggiare i costi ambientali dentro i fattori di produzione delle merci.


L’atmosfera, le acque, il suolo, le materie prime… non possono più essere beni a disposizione gratuita. Vanno prezzati, tariffati, monetizzati, regolati. Quindi, resi scambiabili: tanto più cari saranno, tanto meno le imprese ne faranno uso.


Il libero gioco dei mercati penserà a stimolare comportamenti del sistema delle imprese mirati al risparmio e all’efficienza. Sembra semplice e razionale, ma c’è più di una difficoltà. Quale può essere il “giusto prezzo” monetario di beni forniti “gratuitamente” dalla natura non riproducibili e che in gran parte non
vengono nemmeno utilizzati nei processi economici?


Tanti anni fa, nell’immediato secondo dopoguerra, uno straordinario naturalista, Aldo Leopold (Almanacco di un mondo semplice, Red edizioni 1997) ricordava come “la maggior parte dei membri della comunità terrestre non ha valore economico. I fiori selvatici e i passeracei ne sono un esempio. Dei ventiduemila tipi superiori di piante e animali nativi nel Wisconsin forse non più del 5% può essere venduto, nutrito, mangiato o sfruttato economicamente in qualche modo.


Eppure queste creature sono membri della comunità biotica e se, come credo, la stabilità di questa dipende dalla sua stessa integrità, essi hanno ogni diritto di continuare ad esistere”. È questo tipo di considerazioni che ci porta a pensare che principi quali “chi inquina paga” (invece del più semplice: “è proibito inquinare”) siano una vera aberrazione. Come spiega bene Vandana Shiva nel suo ultimo lavoro Ritorno alla Terra. La fine dell’ecoimperialismo (2009, Fazi), il Protocollo di Kyoto (il più grande tentativo mai architettato di integrazione pianificata dell’ambiente nell’economia di mercato) si fonda proprio sull’attribuzione per legge di un diritto di inquinamento ad un gruppo di imprese preselezionate e di una autorizzazione al commercio dei relativi permessi, “crediti”. I risultati (non) ottenuti dai complicatissimi giochi di contabilizzazione del carbonio stanno a dimostrare che il sistema delle imprese e gli interessi degli stati sono abilissimi a piegare le “regole del mercato” a proprio favore: concentrazione del potere economico, esternalizzazione dei costi, sfruttamento delle economie più deboli.


Far entrare a forza l’“economia della natura” dentro l’“economia dei soldi” (come la chiama Giorgio Nebbia) è una operazione non solo arbitraria, ma anche inefficace. Sarebbe più razionale rovesciare il ragionamento: prendere atto che l’economia è un sottosistema dipendente dalla sfera biologica alle cui leggi siamo semplicemente obbligati a sottostare. La ricongiunzione tra economia e natura non può che avvenire riconoscendo le giuste gerarchie e priorità. Una verità che anche Paul Hawken ricordava: “Il capitalismo industriale tradizionale (…) trascura di assegnare un valore economico ai maggiori cespiti di capitale che utilizza, e cioè le risorse naturali e i sistemi viventi (…). Ma tale lacuna non può essere colmata semplicemente assegnando un valore monetario al capitale naturale (…) innanzitutto perché molti dei servizi resi dai sistemi viventi non hanno sostituti, a nessun prezzo (…), in secondo luogo, valutare il capitale naturale è un esercizio a dir poco arduo e impreciso” (Capitalismo naturale, Edizioni Ambiente, 1999).


Eppure, se oggi i potenti della terra sono rimasti folgorati sulla via dell’ambientalismo lo si deve proprio (esclusivamente) alle considerazioni d’ordine contabile (le uniche che sono capaci di comprendere) del tipo di quelle contenute nel rapporto Stern commissionato dal governo inglese nel 2006. Nikolas Stern, già economista capo della Banca Mondiale, aveva calcolato i costi monetari necessari per fronteggiare gli sconvolgimenti climatici in corso stabilendo che sarebbe stato più economico intervenire per prevenire le cause piuttosto che per mitigare e adattarsi agli impatti a valle.


Il modello mentale dei teorici della green economy rimane quello del pensiero economico tradizionale. Il climate change è considerato nulla di più che una opportunità economica poiché rende necessaria una ristrutturazione profonda degli apparati produttivi ed apre nuovi business. Ho il sospetto che la crisi ambientale sia usata in modo del tutto strumentale, come pretesto per scoprire nuovi prodotti, nuovi mercati, nuove tecnologie per mantenere alto il differenziale competitivo tra le economie occidentali (Usa e suoi alleati) contro le economie dei “paesi emergenti”. Il loro obiettivo è “fare business con l’ambiente”. Stabilire migliori standard prestazionali ambientali mira semplicemente a mantenere una supremazia tecnologica nella competizione globale, generare più valore aggiunto, più profitti, più masse monetarie da spendere sui mercati di consumo.


Insomma rigenerare il capitalismo più che gli ecosistemi. C’è già chi è pronto a giurare che la prossima “bolla speculativa” riguarderà proprio il comparto dei fondi di investimento “verdi”: acqua, biocarburanti, energie rinnovabili in genere. Come sempre, è straordinaria la capacità del capitalismo di sussumere anche le istanze più antagoniste: lavoro e natura e di finanziarizzarli attraverso i fondi pensione, la partecipazione agli utili di impresa, le privatizzazioni del welfare ed ora anche dell’acqua, dell’atmosfera, dei semi, dei genomi… Ma se l’espropriazione del lavoro è in qualche misura compensabile col salario, che
garantisce la riproducibilità della specie homo sapiens, l’alienazione dei sistemi viventi comporta una distruzione irreversibile e insostituibile dei “servizi” che gli ecosistemi forniscono gratuitamente: il ciclo dell’acqua, la fotosintesi clorofilliana, le catene trofiche, insomma, le condizioni primarie per la conservazione della vita sul pianeta.


I sostenitori del “capitalismo naturale” sperano in un mercato di beni e servizi a impatto zero, a produzioni a ciclo chiuso, a rinvestimenti degli utili nella rigenerazione degli stock di riserve naturali. Ma è concepibile affidare questi obiettivi ad un sistema che ha la propria ragion d’essere nell’aumento indefinito (crescita illimitata) del ciclo produzione-consumi, quale che sia l’oggetto dello scambio mercantile, indifferente allo stesso valore d’uso delle cose e al suo contenuto di entropia? Scrive Giorgio Ruffolo: “L’accumulazione, che è la logica del capitalismo, è per natura illimitata. Di fatto una logica impossibile, quindi illogica, dissennata” (nel: “il manifesto” del 23 maggio 2009). Lo stesso scriveva André Gorz: “La crescita, per il capitalismo, è una necessità sistemica totalmente indipendente dalla e indifferente alla realtà materiale di ciò che crea. Essa risponde ad un bisogno del capitale” (in: “Entropia”, n.2, 2007). Ancora ci ricordava Wolfgang Sachs che: “ogni unità di guadagno produce nuova espansione”. E Martinez Alliez ci avvertiva della trappola tecnologica, ossia dell’effetto rimbalzo: l’efficienza energetica e produttiva può accrescere a livello micro, mentre l’aumento del volume complessivo delle merci prodotte fa diminuire l’efficienza macro-economica. La questione è banale: un filtro catalitico può diminuire i particolati (e solo quelli grossolani) di una singola automobile, ma se nel frattempo la Tata in India sforna un milione di autoveicoli nuovi all’anno il bilancio di massa
delle combustioni dei motori delle automobili non migliora.


La crisi (ambientale, sociale, di sistema e di civiltà) cui è andato incontro il capitalismo contemporaneo ha come origine scatenante l’idea di una crescita illimitata delle produzioni industriali; l’idea di una espansione globale dei mercati di beni e servizi mercificati; l’idea di una diffusione totalizzante dei rapporti sociali dettati dalle relazioni che si instaurano tra capitale e lavoro; l’idea di un dominio assoluto del denaro come unica ragione di scambio, di misura della ricchezza, di accesso al consumo, di indicatore del benessere.


Se vogliamo guarire dalla crisi, dobbiamo allora rivoluzionare (capovolgere) il paradigma della crescita. Ha scritto un sociologo dell’ambiente, Giorgio Osti, che in passato è stato pure molto critico con i sostenitori della decrescita: “Temo che il potenziamento dell’industria verde, se non intacca il tabù della moltiplicazione delle merci, possa fare ben poco. Il problema consiste nel produrre meno in assoluto e produrre merci che abbiano un valore d’uso” (in: “Valori”, marzo 2009).


Non basta, quindi, razionalizzare i consumi. Per uscire dalla crisi serve un cambiamento di orientamento etico-sociale, un cambio di mentalità, una teoria economica nuova, opposta a quella della accumulazione e del possesso, un sistema di relazioni sociali fondato sulla reciprocità, sull’interdipendenza, una rifinalizzazione della “produttività gigantesca che la tecnoscienza conferisce al lavoro umano” (André Gorz, ora in Ecologica, Jaca Book, 2009).


Ma non scoraggiamoci! Questa rivoluzione è già in atto, non solo nelle Caracol zapatiste, nelle comunità femminili indiane, nelle comunità rurali dei Sam Tera, nelle fabbriche recuperate argentine… Anche da noi la rivoluzione è in marcia, basta saperla riconoscere in ogni Gruppo di acquisto solidale (che spezza la
intermediazione parassitaria della grande distribuzione), in ogni pannello solare che viene installato (che rovescia la piramide del modello energico centralizzato), in ogni banca del tempo (che socializza i bisogni e crea solidarietà autogestita), in ogni moneta complementare locale di sconto (che elimina il denaro come mezzo di arricchimento), in ogni installazione informatica open source (che fuoriesce dalla “bestemmia” della proprietà privata dell’intelletto), in ogni orto urbano, mercato contadino, distributore di latte crudo sfuso, filiera corta … (che restituiscono la sovranità alimentare agli abitanti), in ogni pista ciclabile, sistema di mobilità condiviso… (che accompagnano la fuoriuscita dall’era dell’automobile)… in ogni forma di mutualità, di iniziativa culturale multietnica… e via elencando all’infinito sulla scorta della creatività e del saper fare libero che è patrimonio di ogni uomo e ogni donna.

Paolo Cacciari

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