Frigge le patate e scalda gli animi. L’olio di palma, pur non sembrandolo, è uno dei “nuovi mostri” che contribuiscono a distruggere il pianeta.
Un versatile ed economico surrogato ricavato dal frutto della palma, coltivato nel Sud-Est asiatico e presente in una stupefacente moltitudine di prodotti, dai cosmetici alle merendine, dal cioccolato ai biocarburanti. Parafrasando una nota canzone inglese degli anni Sessanta, palm oil is all around.
La produzione mondiale di olio di palma è mastodontica, nulla a che vedere con l’olio di girasole oppure l’olio di colza. La produzione di olio di oliva, al confronto, addirittura scompare: la sua misura è utile forse per fare capire quando sia gigantesca la produzione di questo “olio assassino” i cui tassi di crescita sono irrefrenabili. Nell’anno 2004 ne sono state prodotte 23 milioni di tonnellate, mentre nel 2009, appena 5 anni dopo, la produzione è pressoché raddoppiata toccando i 43 milioni di tonnellate. Per comprendere gli ordini di grandezza, ricordiamo che gli oli di girasole e colza vengono prodotti ciascuno in ragione di 10 milioni di tonnellate annue. L’olio di oliva, invece, si attesta, per l’anno 2000, sui 2,5 milioni di tonnellate: un’inezia.
L’olio di palma è il secondo olio vegetale più prodotto al mondo secondo solo all’olio di soia. Pochissimi sapranno che la quantità di olio di palma presente nelle corsie dei supermercati è straordinariamente alta e moltissimi prodotti ne contengono una certa dose. Spesso non compare neppure, nell’elenco degli ingredienti, sotto il suo vero nome ma viene genericamente indicato come olio vegetale. E la gente tira su e sbatte nel carrello il primo prodotto contenente una (tra le tante) causa di devastazione ambientale. Sbattendosene. Inconsapevolmente, certo. E, ancora una volta, i media tacciono.
Quindi di sicuro questa sede è una buona occasione per comprendere, seppur in estrema sintesi, i termini di questo enorme flagello di dannosità sempre maggiore: distruzione di ecosistemi, sterminio di specie animali, emissione di gas serra in quantità enorme, lesione di diritti umani.
I principali produttori sono Malesia e Indonesia, paesi il cui grado di biodiversità è sempre più minacciato dal continuo disboscamento di foresta pluviale, abbattuta al ritmo di 2,8 miliardi di ettari all’anno per la creazione di piantagioni di palme da olio. La distruzione di vegetazione viene attuata con incendi sistematici ed incontrollati: si calcola che tra il 1997 e il 1998 l’entità delle emissioni di anidride carbonica derivante dagli incendi in Indonesia equivaleva al 40% delle emissioni prodotte globalmente per la combustione di carburanti fossili nell’intero anno. Come se tutto ciò non bastasse, tale conversione alla monocoltura, già di per sé gravissima, si trascina dietro la distruzione di ecosistemi e l'eliminazione di specie animali numerose e rare. Per esempio, minaccia gravemente la sopravvivenza degli oranghi che vivono proprio nelle foreste del Borneo e Sumatra. Negli ultimi quindici anni la popolazione degli oranghi è stata dimezzata, il 90% del loro habitat è già stato distrutto e questi meravigliosi animali potrebbero, se si resta a guardare, estinguersi in una decina d’anni. Per non parlare di tutte le popolazioni autoctone che vivono in armonia con la natura e che vengono per sempre soppiantate dai luoghi che abitano per far spazio alla cieca avidità delle multinazionali.
Sono stati fissati dei paletti per tentare di regolamentare questa scellerata produzione. Nel 2004 alcune organizzazioni internazionali, di concerto, fondano la Roundtable on Susainable Palm Oil (RSPO), un gruppo in cui sono rappresentati produttori, trasformatori, ONG, banche ed esponenti del settore commerciale che si occupa di certificare la produzione sostenibile di olio di palma. Nonostante in alcuni casi l’esistenza di questa organizzazione abbia effettivamente portato a dei miglioramenti come nel caso di poche aziende britanniche e svizzere, tuttavia alcune certificazioni sono risultate di fatto fasulle, nel caso in cui a dare la certificazione fossero le stesse società proprietarie delle piantagioni di palme da olio come è successo per la prima certificazione rilasciata.
La questione è dunque assai delicata. Delicata perché in un contesto di produzione mondiale, la sostenibilità è inevitabilmente correlata alla quantità. E’ improponibile parlare di sostenibilità tralasciando la quantità; è impossibile mantenere i consumi attuali parlando di produzione sostenibile. Sono i consumi inconsapevoli e i meccanismi produttivi stabiliti a livello aziendale a dovere ridimensionarsi in modo drastico tale da poter parlare di sostanziale sostenibilità. E’ vero: ci sembrerà che il nostro acquistare un rotolo di pasta sfoglia, un pacco di biscotti oppure un tubo di patatine quasi non influenzerà alcuna dinamica. Questo è anche e parzialmente vero perché il primo dei primi cinque consumatori di olio di palma nel mondo è la Cina con i 3,4 milioni di tonnellate per anno mentre l’Italia non figura neppure in questa lista: però l’Italia stessa è il terzo importatore europeo di olio di palma. E’ quindi necessario operare scelte e consumi consapevoli. Anche per la nostra salute, dato che l’olio di palma contenendo molti grassi saturi e subendo spesso il trattamento di idrogenazione è sconsigliabile. E’ difficile notare gli effetti delle proprie scelte, proprio perché l’olio di palma ha una presenza capillare e massiccia, ma è giusto e doveroso compiere un gesto: smettere di comprare quel prodotto “A” che si è scoperto contenere olio di palma. Leggere attentamente le etichette e depennarlo per sempre dalla lista della spesa. Sarà poco ma, unito all’azione di tanti, potrà far forse cambiare i piani di azione di un’azienda che preferirà orientarsi su strade meno spicce e di maggiore spessore etico.
L’economia globalizzata a livelli incontrollati e generata dalla più sregolata libertà di mercato è un’economia basata sulla monotonia della monocoltura, che si nutre grazie ad una elefantiaca catena di distruzione e produzione in cui ogni paese deve essere specializzato in maniera maniacalmente profittevole a produrre solo “bulloni” o solo “chiodi”. Un modus operandi che cambia contenuti ma non forma, dove bulloni e chiodi una volta rappresentano piantagioni di soia per la foresta amazzonica e un’altra olio di palma per l’Indonesia e la Malesia. Con un’intensa punta di amarezza ma un immancabile moto di speranza ci chiediamo se in un futuro prossimo una nuova coscienza, nostra, degli accondiscendenti governi e delle implacabili multinazionali riuscirà a ridimensionare le mortifere monocolture generate della monocultura del profitto.