Vivere bene non è vivere di beni
Abbiamo incontrato Giuseppe De Marzo in occasione del convegno Quale futuro immaginare? Laboratorio di immaginazione creativa per un futuro sostenibile, tenutosi a Roma sabato 6 novembre presso la sala Armadillo. De Marzo, attivista, economista, giornalista e scrittore, lavora da anni nelle reti sociali, nei movimenti italiani e in America Latina. Dal 2003 è inoltre portavoce di A Sud, associazione che affianca i movimenti sociali e indigeni dei sud del mondo attraverso la costruzione di ponti di comprensione, reciproco sostegno e solidarietà. Uno dei corollari agli impegni “sul campo”, portati avanti con l’associazione che ha contribuito a fondare, è senza dubbio la sua attività di scrittore. A un anno dall’uscita di Buen Vivir, l’incontro con De Marzo è un’ottima occasione per approfondire alcuni dei temi trattati nel libro: crisi del modello capitalista e sue alternative, costruzione di un nuovo paradigma di civilizzazione, giustizia sociale e giustizia ambientale, e ancora democrazia della terra e geografia della speranza. Ognuna di queste nozioni merita di essere messa sotto la lente di ingrandimento, viste le condizioni di crisi (parola da leggere al plurale) in cui versa il pianeta terra.
Partiamo dal suo libro, il Buen Vivir, all’interno del quale lei sviluppa una proposta di democrazia della terra che si configura come una critica radicale del paradigma di civilizzazione occidentale. Può illustrarci la sua analisi?
Innanzitutto la necessità di immaginare e ricostruire un paradigma di civilizzazione non è una necessità ideologica, ma è più che altro un’urgenza dettata dalla crisi ecologica del nostro pianeta, nonché dalla crisi sociale ed economica nella quale indistintamente tutti i paesi, incluso il nostro, sono sprofondati. Se noi immaginiamo gli ultimi dieci anni come il metro per misurare se le politiche capitaliste producono o meno il benessere per l’umanità, o espandono il senso e la qualità della vita di più persone rispetto a quanto la riducono per altrettante persone, il verdetto è inesorabile: la governance globale negli ultimi dieci anni ha fallito. Ha fallito perché ha creato mezzo miliardo in più di affamati. Abbiamo un miliardo di affamati rispetto all’impegno solenne preso dalla FAO nel ’96 di ridurlo al 50%. La questione ambientale è drammatica oramai nel pianeta. I biologi parlano, purtroppo, di sesta estinzione di massa alle porte. Perfino a Copenaghen la governance globale ha fallito, non trovando un accordo su riduzione e contenimento della soglia di due gradi, evidenziata come soglia esiziale oltre la quale non possiamo andare. Nonostante ci fosse stata un’assunzione di responsabilità generale sulla questione legata alla crisi ecologica da parte del Global Warming, non c’è stato uno straccio di impegno concreto. La necessità è quella di riconfigurare una democrazia della terra che contenga tutti e tutte indistintamente è un’urgenza dettata dal fallimento del modello della governance attuale che ha prodotto disastri in termini ambientali, sociali, economici ed energetici. Vi è inoltre la necessità di costruire un’idea di democrazia che non può fondarsi sull’esclusione di quattro quinti del pianeta, come l’attuale democrazia. Occorre costruire una democrazia non esportabile a suon di bombe, bensì basata su un etica pubblica; su un concetto di responsabilità universale che va da Nord a Sud.
Cos’è dunque l’idea di democrazia della terra?
La democrazia della terra risponde alla necessità dei viventi di dover corrispondere al primo diritto: il diritto alla vita. Dopo anni di studi che ognuno di noi porta avanti nel proprio campo sull’analisi della crisi del sistema, scopriamo che esso costruisce fondamentalmente il suo plus-valore sui servizi ambientali gratuiti. Ogni anno questo sistema continua a prendere circa 33.000 miliardi di dollari di servizi ambientali gratuiti alla natura, producendo e creando un esercito di manodopera di riserva. In questo momento stiamo vivendo la più gigantesca operazione di proletarizzazione di massa della storia, ed è curioso che avvenga in assenza di un movimento operaio. Poiché le spinte della funzione di accumulazione originaria inedita del capitale sono spinte brutali e terminali, capaci di produrre da un lato la distruzione ambientale e dall’altro la distruzione sociale, è chiaro che dobbiamo riscrivere il contratto sociale esattamente in maniera opposta In altri termini dobbiamo partire dalla giustizia ambientale e dalla giustizia sociale, cambiando gli assi cartesiani sui quali riscrivere la nostra funzione di civiltà, sviluppo, progresso, pensandoli a partire da questi due pilastri caratterizzanti la democrazia: giustizia ambientale e giustizia sociale.
Questo è esattamente ciò che il modello economico capitalista non fa! Soltanto se noi teniamo ferme queste due direzioni siamo capaci di immaginare finalmente uno sviluppo realmente sostenibile, degno di questo aggettivo che oggi come oggi è messo li soltanto per addolcire la pillola. Parliamo di sostenibilità quando siamo in grado di assicurare anche alle generazioni che verranno gli stessi diritti. Altrimenti non parliamo di sostenibilità! Parliamo di giustizia sociale nel momento in cui è garantito l’accesso ad alcuni servizi e beni comuni fondamentali per ogni essere umano. Su questi due assi non è utopistico e velleitario riscrivere il contratto sociale. Le condizioni ci sono. Manca la volontà politica per riscriverlo così. Non mancano le braccia e le gambe di uomini e donne disposte a viver bene. E qui arriviamo al Buen Vivir… Arriviamo al Buen vivir, che non ha niente a che fare con il concetto di vivere meglio, che indica una specie di spinta infinita alla crescita. Il concetto di buen vivir si basa esattamente sull’idea che noi immaginiamo l’essere umano in maniera integrale. Nella società occidentale tendiamo a pensare agli esseri umani come qualcosa di monolitico. Vivere in maniera piena, invece, vuol dire scoprire che l’essere umano, oltre ad accomunare beni nella vita, ha altri obiettivi. Tra questi quello fondamentale è quello di Viver bene. Viver bene non avviene soltanto attraverso l’accumulazione di beni. Avviene anche se noi riusciamo a liberare tempo libero, a far capire agli altri che ci sono parti di noi che vanno nutrite e riscattate. Questo è un concetto importante che trascende da idee olistiche o velleitarie della vita. Tutt’altro! Significa semplicemente ricostruire i nessi biologici, filosofici, giuridici, economici e nel caso, per chi lo vuole, anche spirituali, in termini orizzontali per ribaltare la struttura verticale del potere. Da questo punto di vista è interessante notare che l’attuale uomo, che io definisco homo oeconomicus, è praticamente unidimensionale e unidirezionale. Difficilmente riesce a uscire dalla matrice nella quale il modello economico necessita di tenerlo. Uscirne significa sprigionare le sue forze creative e immaginare, nella concezione più marxiana del termine, cosa siano le forze produttive in economia. Per capirci, fabbricare una testata nucleare produce valore aggiunto. Un’arma nucleare non è però una forza produttiva. È una forza distruttiva. Per le leggi dell’economia capitalista, però, quella è una forza produttiva. Ecco, noi crediamo che si debba ricostruire anche in economia dignità e senso compiuto al concetto di forze produttive. Ci sono sei crisi che si intrecciano tra loro: energetica, migratoria, alimentare, finanziaria, economica e ambientale. Per uscire dalla crisi dobbiamo in ultima analisi riscrivere un nuovo vocabolario, senza affrontarle col piglio dell’uomo economico.
Progetti e “buoni propositi” dell’Associazione A Sud?
L’associazione della quale faccio parte ufficiosamente da più di dieci anni e ufficialmente da sette porta avanti molti progetti di cooperazione nei Sud del mondo, basati su un’idea di cooperazione altra rispetto a quella conosciuta in Europa. Il sistema europeo, quello delle ONG, è peraltro entrato in crisi. Non crediamo che sia utile esportare il nostro modello di cooperazione e sviluppo, comprensivo di una concezione umanitaria e paternalistica della cooperazione.Lavorando con le comunità indigene in varie parti dell’America Latina, abbiamo imparato a credere nella reciprocità, più che nella solidarietà. Ogni essere umano ha qualcosa che può scambiare, che può insegnare all’altro. Noi facciamo cooperazione politica, costruendo dal basso relazioni con organizzazioni, comunità, sindacati, donne, comunità indigene e comunità di resistenza. I progetti si basano su ciò di cui i nostri interlocutori oggettivamente necessitano. Si passa dalla costruzione di una rete fognaria per i guerrieri dell’acqua boliviani dopo la guerra dell’acqua di Cochabamba alle radio indigene; passando per studi legali sull’accompagnamento alla violazione dei diritti umani per le donne colombiane. Aldilà dell’enumerazione della grande quantità di progetti che portiamo avanti, è importante sottolinearne la filosofia comune: è la filosofia di chi pensa alla cooperazione come uno strumento della politica che può fare bene o male. La cooperazione non è neutra. Può essere anche una qualcosa che esporta un modello di sviluppo, una forma di colonizzazione, un qualcosa che crea dipendenza. Negli ultimi due anni l’Associazione A Sud è molto concentrata nello sviluppo dell’area relativa alla ricerca e alla formazione. Tre anni fa abbiamo dato vita al primo centro di documentazione sui conflitti ambientali in Italia, presso il bioparco di Roma a Villa Borghese. In questo centro vengono mappati i conflitti su acqua, biodiversità, foreste, idrocarburi e miniere, presenti nei sud del mondo. C’è un portale che rende disponibili le ricerche che facciamo nei diversi paesi. Creiamo anche fonti, possedendo una biblioteca che contiene circa duemila testi inediti provenienti dai sud del mondo. Formiamo stagisti dell’Università La Sapienza, di Roma Tre e di un’università di Lione e di Barcellona, che vengono per imparare a mappare i conflitti ambientali di nuova generazione con una didattica diversa rispetto a quella classica. Un altro aspetto importante riguarda la ricerca e la formazione che A Sud fa nelle scuole della provincia romana. Antonio Gramsci diceva che la prassi guida la teoria: per noi è importante praticare nelle scuole, nelle strade, negli atenei, e anche nelle piazze; oltre a fare ricerca, formazione e cooperazione, A Sud promuove infatti attività politica sul territorio, campagne, accanto alle persone in carne ed ossa. Questo ci da sempre la misura della straordinarietà della politica con la p maiuscola, intesa come relazione, polis, “fare società”. Ritengo che sia questo ciò di cui il nostro paese ha un disperato bisogno.
A Cancun, in Messico, a fine Novembre i governi del mondo si incontreranno per affrontare la tragedia dei cambiamenti climatici, mentre i movimenti sotterranei presenti sul pianeta promuoveranno un foro alternativo. Di cosa ha bisogno un ommovimento per individuare valide controproposte al sistema capitalista ormai in crisi strutturale?
Con grande onestà io penso che il problema non sia legato alle proposte che mancano. Abbiamo una quantità di proposte elaborate a Cochabamba durante il primo vertice mondiale per la giustizia climatica e i diritti della madre terra in Bolivia l’aprile scorso. Sono proposte straordinarie perché nella società civile dei movimenti vi sono premi nobel, scienziati, biologi, intellettuali, filosofi. Più che altro la questione non riguarda la possibilità di sconfiggere o meno il capitalismo. La domanda vera è: siamo capaci di organizzare un campo da noi? Il capitalismo è già un meccanismo con un inizio e una fine. Questo modello sta volgendo al termine, come tutte le esperienze umane. Bisogna capire, di contro, se noi siamo in grado di organizzare un campo. Ricordo che già nel 2001 furono teorizzate idee come cambiare il mondo senza prendere il potere. Personalmente non credo in questa teoria, come non credo nell’assolutismo autistico delle forze politiche classiche che pensano che i partiti stiano il centro dell’elaborazione delle proposte e che sindacati e movimenti siano al massimo la cinghia di trasmissione di un disagio sociale, eliminabile nel momento in cui si coopta uno o due leader di questi movimenti all’interno delle forze politiche. Io penso che sia i partiti che i movimenti, presi singolarmente, non siano capaci. I partiti non sono capaci perché rappresentano forme ottocentesche di organizzazione della politica che sono ormai inadeguate per affrontare il livello della crisi. Inadeguata a comprendere ciò che sta avvenendo appare, oltretutto, la classe dirigente. I movimenti, nonostante seminino idee nuove, non riescono dal canto loro ad affermarsi nel difficile scenario odierno.
Oggi è un momento complicato per il nostro pianeta, un momento in cui occorre dare forza a proposte alternative in termini concreti. Io auspico il fatto che si possa costruire anzitutto un punto intermedio tra forze classiche della politica e movimenti, dove le pratiche dei movimenti e il contenitore istituzionale delle forze politiche possano miscelarsi. Così facendo potremo verificare se vitalità, freschezza e creatività saranno d’aiuto a produrre cambiamenti nelle forze politiche tali da avvicinare poi le parti. Oggi la democrazia rappresentativa non è e non può essere l’unica soluzione. Però grazie ad essa abbiamo ad esempio Evo Morales, Chavez, Correa, e abbiamo avuto Lula! Ciò vuol dire che in alcuni paesi la democrazia rappresentativa è stata utilizzata dopo un lungo periodo in cui democrazia partecipata e democrazia comunitaria erano la base su cui i movimenti sociali hanno costruito un’idea di società in movimento. Siamo passati dai movimenti sociali, da un avanguardismo novecentesco in qualche modo illusorio, a un’idea di società in movimento che poi si occupa giocoforza anche della democrazia rappresentativa. Un mio maestro, Boaventura de Sousa, intellettuale portoghese che è uno dei punti di riferimento del movimento del Global Forum, afferma che noi stiamo lavorando attualmente nel costruire un’idea della democrazia interculturale. In essa possono confluire democrazia comunitaria, democrazia rappresentativa e democrazia partecipata. Credo che sia questa la questione centrale che movimenti e forze politiche devono affrontare: come si riscatta la partecipazione, di cui c’è un fortissimo bisogno, e come questa partecipazione può tradursi in trasformazione.
Spostiamoci in Italia. Sulla nostra pelle viviamo un grande paradosso. Paesi economicamente e culturalmente arretrati rispetto al nostro, sono riusciti ad organizzarsi e vincere lotte per la riconquista dei diritti umani e dei beni comuni (In Bolivia sono nati movimenti che hanno vinto lotte come la guerra dell’acqua e del gas). In Italia, nonostante si verifichi una ricca spinta partecipata dal basso, in alcune zone del sud si respira un clima medievale: Terzigno, Napoli, Rosarno. Come se lo spiega? Dove sta l’errore di sistema? Paragonare in questo momento il movimento boliviano al movimento italiano è ingeneroso perché ovviamente in Bolivia, come in Ecuador, si è fatto un percorso in maniera sincera e franca sul finire degli anni ottanta. Dopo la caduta del muro ci avevano detto che il capitalismo avrebbe portato benessere a tutti. In questi paesi, invece, dopo venti anni di dittature militari i movimenti che oggi li governano decisero di chiudere l’esperienza di relazione con forze politiche classiche oramai superate dai tempi. Si misero a lavorare in maniera diligente e costante per anni. Dopo un lavoro certosino di accumulazione di forze sociali durato oltre dieci anni, è stato molto più semplice passare dai movimenti alla società in movimento e andare al governo di un paese. Si è oltretutto promossa un’assemblea costituente che iscrive i principi, regole messe al centro del buen vivir.
Nel nostro paese la questione è diversa. Noi abbiamo avuto uno dei partiti di sinistra più importanti al mondo, movimenti extraparlamentari di straordinaria vitalità, ma evidentemente la grande tradizione nostrana non ha saputo passare il testimone negli anni novanta a una generazione che doveva incubare la conflittualità e promuovere un’idea altra delle relazioni sociali. Accanto alla conflittualità è mancata la capacità di analisi e proposta politica. Questo ha fatto si che, specialmente nel Sud Italia, le condizioni di abbandono dello stato, le condizioni di clientelismo politico, le condizioni provocate da sessant’anni di governo della mafia, hanno prodotto forme di spontaneismo e velleitarismo politico. Si tratta di forme non organiche di lotta e proposta politica. La questione di Rosarno ha posto al diapason questo disagio della popolazione meridionale per anni abbandonata, in balia oramai di un altro stato gestito dalle ‘ndrine, come nel caso della cittadina calabrese. In gioco vi sono forme di schiavitù e sfruttamento, tipiche del capitalismo. Se andiamo a guardare la storia in quanto tale c’è manodopera sfruttata a basso costo che si unisce al disagio sociale, a una cultura propinata da alcune forze politiche che ormai spinge ad aver paura del diverso.
La questione di Rosarno, esplosa a partire da queste premesse, non può essere letta come l’attacco di una comunità di razzisti nei confronti di poveri africani sfruttati. Dovremmo analizzare meglio, in questo caso, la nozione di “comunità di razzisti”, verificando la situazione sociale di quel luogo. Se Rosarno esprime il dramma di come questo paese non stato capace di ragionare sui fenomeni migratori, sullo sviluppo del sud Italia e sulla criminalità, la questione di Napoli rappresenta invece uno dei paradigmi più emblematici del fallimento del capitalismo: i rifiuti. Napoli mette in evidenza un ragionamento che vorremmo sentirci fare dai politici, ma non riusciamo a rintracciarlo nelle loro parole, sui giornali e in tv. Il problema centrale da affrontare, in realtà, è quello che questo modello di produzione, consumo e distribuzione, genera troppi rifiuti. A pagare è la comunità, il cittadino, lo stato. Si utilizza lo stato per far pagare il profitto alle multinazionali, alle imprese. La camorra e le imprese del nord hanno grande interesse a mettere nei rifiuti che vanno in discarica prodotti tossici che avrebbero dovuto pagare a caro prezzo per metterli in sicurezza. Il capitale, quindi, si appropria della salute di milioni di cittadini per trarne vantaggio. Messa così, la questione è ben diversa. Potremmo comprendere anche di più quella rabbia dei cittadini e delle cittadine frustrati dalla violazione sistematica del loro diritto alla salute, del diritto al futuro, del diritto di crescere un figlio senza che si ammali di leucemia. Io condivido questa rabbia e sfido chiunque a dirci il contrario. Rivendico per questi cittadini l’idea di un’insurrezione popolare. Quando un popolo deve scegliere tra la vita e la morte ha tutto il diritto di scegliere la vita e di insorgere contro chi vuole la morte di quella comunità. Noi come A Sud abbiamo promosso, insieme ad altre settanta realtà italiane, la costituzione della rete italiana per la giustizia ambientale e sociale. In questa rete, oltre a Fiom, CGIL e comitati dell’acqua, ci sono anche diversi comitati campani come il comitato di Chiaiano (cittadina coinvolta insieme a Terzigno e Boscoreale in questa amara faccenda).
Di contro, rispetto alle realtà citate sinora, vi sono nel nostro paese alcuni posti da lei definiti luoghi di una “geografia della speranza”. Volendoli mappare sul territorio, li individueremo in Sicilia, dove si lotta contro la costruzione del ponte sullo stretto, in Val di Susa, dove si lotta contro i Tav, e a Vicenza, dove si sono costituiti comitati che lottano contro le basi militari americane. Si tratta però di guerre solitarie che non coinvolgono l’intera popolazione. La spinta propulsiva del movimento operaio, che negli anni ottanta coinvolgeva l’intero territorio chiamandolo all’azione, sembra essere andata perduta. Le conquiste raggiunte, di conseguenza, sono andate perdute assieme alla volontà di insorgere in maniera unitaria. Al giorno d’oggi su cosa occorre fare leva per riscrivere in Italia le regole del contratto sociale, avviando nuovi movimenti le cui lotte non rimangano barrate all’intero di precisi confini territoriali? Come può un cittadino meridionale, in altri termini, sentirsi coinvolto emotivamente nella battaglia sui treni ad alta velocità che si svolge da tutt’altra parte d’Italia?
Si sente coinvolto quando si costruisce un manifesto, quando si costruisce una teoria dell’emancipazione. Una volta se tu nascevi a Reggio Calabria piuttosto che a Lagos, piuttosto che a La Paz, ti sentivi parte di un campo. Questo campo era un campo planetario. Potevi anche perdere a casa tua, ma sapevi che la lotta andava avanti perché tu ti identificavi in un’idea di emancipazione sociale. Questo non è il sogno! Questa è la legittima aspirazione di ogni essere umano: l’idea di identificarsi in qualcosa di più grande di noi, in un’idea più ampia di giustizia, in un’idea di fratellanza universale. Purtroppo abbiamo vissuto quindici anni in cui, a partire paradossalmente dalla forze politiche del centro-sinistra, tutti si sono impegnati a farci comprendere che le ideologie erano finite e che le social-democrazie avrebbero saputo controllare il capitalismo. Ci hanno convinto che il conflitto non serviva più. Dopo anni in cui la percentuale dei disoccupati e dei precari si è triplicata, dove i poveri sono nove milioni, dove i conflitti sono in più di duecentoquaranta comunità del nostro paese, beh immaginando che il modello capitalista per fare plusvalore necessita di aggredire la terra, è chiaro aspettarci altri conflitti in questi terra. Dobbiamo passare dalla bio-crisi alla democrazia della terra. È vero. Il rischio è quello della frammentazione, con un campo di tante belle lotte che poi dopo un po’ defluiscono. Manca lo slancio, la spinta produttiva di grande creatività. È ciò che succede nel nostro paese, in cui le lotte durano due – tre settimane e poi vengono sgonfiate dai media e abbandonate dalla politica. Nel momento in cui, però, troviamo una teoria nuova, un’altra idea di emancipazione sociale, il quadro cambia. Perché individui a distanza di mille chilometri si sentiranno parte del medesimo campo. La spinta al cambiamento viene alimentata dal senso di appartenenza e identità di un campo che si pone come obiettivo giustizia sociale e giustizia ambientale.
Da Carlo Levi a Pasolini, passando per Luis Sepulveda, molti sono gli scrittori che hanno approfondito la questione dei meridioni del mondo, provando a descrivere differenze e analogie tra i vari contesti. Alla capacità di raccontare le cosiddette realtà terze, lei aggiunge una preparazione economica che le permette di guardare al problema utilizzando più di una lente d’ingrandimento. Com’è nato in lei lo spirito di resistenza sociale?
Penso che lo spirito di sentire sulla propria pelle un’ingiustizia fatta a diecimila chilometri di distanza è qualcosa di cui tutti gli esseri umani sono portatori. Bisogna capire se tu senti o meno quella vocina, se ti senti parte della vita. Due categorie possono spiegare questo spirito: quella legata al guevarismo e quella legata alla cosmovisione dei popoli indigeni. Anche in questo caso possiamo rifarci al limite strutturale del capitalismo: l’esternalizzazione della vita. L’homo oeconomicus ha ormai costruito un’idea di oggettivazione della vita. Si vede esterno alla vita: dall’epistemologia del linguaggio che ha costruito fino ai suoi comportamenti sociali, paradossali, idioti, schizofrenici. Stupidi. Non c’è niente di più stupido del comportamento del modello economico attuale rispetto all’utilizzo dei beni comuni e delle risorse naturali. È un qualcosa di idiota, di stupido. Però l’uomo lo fa! Perché si vede esterno alla vita, ed ha un’idea della terra inerme, che se vuoi è il punto più alto della trascendenza della filosofia meccanicistica. Possiamo contrapporre a questo concetto il concetto di terra madre, proprio della cosmogonia dei popoli indigeni. “Cosmo” è una parola greca che significa “ordine” ed “equilibrio”. Sembra paradossale. Contrapponiamo cosmo e caos. Avremo democrazia e demagogia. Oggi la demagogia e il caos guidano il pianeta. Dovrebbero guidarlo la democrazia e il cosmo. Se mi sento parte della vita, nel momento in cui stanno distruggendo il polmone del mio pianeta, che rappresenta il mio nutrimento costante, immaginandomi come una parte del tutto miro a difendere in tutto. Ogni essere umano dovrebbe immaginarsi come parte di un tutto. Ognuno di noi difenderebbe la propria madre durante un’aggressione per strada. Il legame con la propria madre è identico al legame con il proprio nutrimento, aldilà del senso di giustizia e dell’impostazione morale che ci deriva da figure come Gandhi, Guevara o Gramsci, che ci dicono in ogni momento da che parte bisogna stare.
Qual è stata la sua esperienza latinoamericana?
La mia esperienza in America Latina è per certi versi molto complessa e lunga da raccontare in un’intervista. Posso dire che, dopo sette anni di movimento studentesco, sono andato in America Latina successivamente alla strage di Acteal in Chapas, per la prima volta come rappresentante di quel movimento. Sono arrivato in America Latina con una valigia piena di certezze e sono tornato a casa con un cartone di dubbi. Questo processo di destrutturazione è stato sicuramente il processo più utile della mia vita, non solo in termini politici ma anche in termini umani. Ho avuto il privilegio e la fortuna di lavorare per anni in quei luoghi incrociando le più importanti lotte, nonché i leader e le organizzazioni che le hanno portate avanti. È stata una palestra politica e un grandissimo insegnamento continuo. Continua ad alimentare la mia pratica e la mia vita anche in questo lato dell’oceano.
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