Una nuova finanza pubblica per la sostenibilità
E' sempre più chiaro che ci si avvia verso una lunga crisi economica dovuta a un corto circuito del un modello di sviluppo nelle economie avanzate. Sarà una lunga transizione, e le sfide per renderla giusta sono enormi. Spesso si invoca l'opportunità di uscire da questa crisi con un New Green Deal. Questo è vero, ma bisogna essere consapevoli che la sfida dei cambiamenti climatici e della crisi ecologica necessitano interventi e politiche pubbliche che in paragone il New Deal di Roosvelt degli anni '30 sembra una semplice manovra di bilancio.
Quindi è inutile eludere il vero nodo centrale della sfida per qualunque forza politica che si candida a governare il paese: dove si trovano le risorse per finanziare una trasformazione profonda della nostra società in tutti settori e processi economici, allo stesso tempo rispettando i parametri di stabilità e senza aumentare ulteriormente il debito pubblico?
Sempre più ci viene detto che i soldi non ci sono e non ci sono alternative ai piani di austerità preventivi in ossequio alla dittatura dei mercati finanziari. La risposta chiara da dare alla litania che conosciamo dovrebbe essere la seguente: servono politiche industriali comprensive e visionarie e una nuova finanza pubblica per attuarle.
Sappiamo che politiche di bilancio diverse a favore della sostenibilità e la trasformazione della società sono possibili, riorientando numerose spese ed agendo sulla leva fiscale. Ma nella transizione sono necessari ancora più soldi e investimenti, e l'attuale crisi dimostra che il ruolo del pubblico è centrale in tutto questo vista l'incapacità dei mercati di trasformarsi da soli in nome dell'interesse generale.
In questo contesto bisogna guardare altrove e considerare due aspetti cruciali nella gestione del debito pubblico e del bilancio complessivo dello Stato.
L'Italia ha il vantaggio importante: la metà dei titoli di Stato emessi dal ministero del Tesoro per finanziare il macigno del debito sono stati comprati dagli stessi italiani.
Quindi è vero che molti italiani sono indebitati con se stessi tramite la logica perversa del debito pubblico, ma tanti altri sono creditori verso il loro stesso Paese e i loro concittadini.
Allo stesso tempo gli investitori istituzionali italiani sono limitati e tendono ad avere un orizzonte dell'investimento tutto nostrano. Tutto ciò è un'opportunità che in parte ci isola dalla pervasività dei mercati finanziari e dal loro ricatto, molto più di quanto avviene in Grecia, Spagna, Portogallo, per non parlare di Regno Unito o Stati Uniti.
Ciò quindi ci dice che è cruciale coinvolgere i cittadini italiani nello scommettere direttamente nel finanziamento di politiche diverse in un quadro di nuova finanza pubblica per la sostenibilità.
In secondo luogo, è importante sottolineare che spesso guardiamo solamente al bilancio annuale dello Stato, dimenticando la sua dimensione “patrimoniale”. Non tanto i beni demaniali da svendere, come fatto recentemente dal governo, ma dove lo Stato investe e cosa possiede finanziariamente ed economicamente. In breve, dovendoci equipaggiare per una lunga transizione e trasformazione della società e dell'economia, paragonabile alla ricostruzione del dopo-guerra, è necessario ripartire dalla stessa logica di intervento pubblico, pur evitando di commettere alcuni errori e storture del passato.
Il dibattito nel contesto della crisi in Inghilterra ed in altri paesi, ci dice che un intervento statale nel sistema bancario è inevitabile. La domanda è con quali fini di lungo periodo, ben oltre l'emergenza di salvare le banche e garantire la stabilità finanziaria del sistema.
Allo stesso tempo è inevitabile che politiche strutturali di sostenibilità abbiano bisogno di una banca pubblica per gli investimenti, specialmente nel caso italiano in cui servono avvii di imprese e creazioni di nuovi mercati, nonché nuove forme di finanziamento pubblico per beni comuni.
In realtà in Italia ne abbiamo già una, ma è dimenticata dai più e non necessariamente finanzia la sostenibilità, anzi. Si chiama Cassa depositi e prestiti – Cdp - e gestisce un patrimonio di 245 miliardi di euro di capitale ed una raccolta del risparmio postale annuale di 220 miliardi di euro, con garanzia dello Stato. Insomma, la vera cassaforte pubblica del sistema Italia. Forse l'unico strumento messo in campo da Giulio Tremonti durante crisi, pur se con un intervento limitato a 8 miliardi aggiuntivi di prestiti alle banche, per metà garantiti dallo Stato, da elargire almeno sulla carta alle piccole e media imprese in crisi.
Cdp concede con garanzia dello Stato mutui di scopo agli enti locali, incentivi a settori produttivi e infrastrutturali insieme a banche private tramite fondi rotativi, finanziamenti a piccole e medie imprese tramite banche ed a progetti di grandi infrastrutture. Allo stesso tempo Cdp opera anche sul mercato senza garanzia sovrana, sostenendo imprese ed investimenti per la fornitura di servizi pubblici. In particolare, Cdp detiene quote importanti in alcune multinazionali italiane, in primis Eni ed Enel – circa il 10 per cento – imprese che non brillano affatto per la loro performance di sostenibilità, ed in vari altri strumenti finanziari, quali fondi di private equity ed infrastrutturali ad elevato rendimento finanziario. Cdp è controllata per il 70 per cento dal ministero dell'Economia e per il 30 per cento da 66 fondazioni bancarie italiane.
Utilizzando Cdp è facilmente possibile creare una banca pubblica di investimento. Ad esempio vendendo solo la metà delle quote possedute in Eni ed Enel si otterrebbero circa 20 miliardi di euro, il capitale sociale della nuova banca.
Tale banca potrebbe mutuare alcuni degli strumenti finanziari oggi usati da Cdp, contestualizzandoli però in una logica forte di finanza pubblica. Ad esempio la banca potrebbe concedere mutui agevolati agli enti locali, fornire una garanzia sovrana sull'emissione di titoli obbligazioni di scopo e nei mercati “locali” da parte degli enti locali – in questo modo ad esempio finanziando politiche per l'acqua pubblica - allo stesso tempo creando partecipazione e maggiore controllo pubblico diffuso vista la partecipazione attiva dei cittadini/investitori nel bene comune. Analogamente la nuova banca potrebbe investire nello start up di nuove aziende energetiche locali per l'autonomia ed autosufficienza di territori.
La stessa logica della garanzia sovrana pubblica può anche essere usata per catalizzare investimenti in nuove aziende di giovani in agricoltura e piccole aziende familiari, nonché coprire meccanismi assicurativi per i piccoli agricoli, sostituendo così la logica d'azzardo dei derivati finanziari.
Ovviamente la banca può avere quote di partecipazione nella creazione di nuove imprese e coprire con garanzia sovrana anche strumenti di prestito mutuo e reciproco con cui le imprese si potrebbero finanziare a vicenda, creando così una rete ed una forte interdipendenza.
Invece delle solite grandi opere, la banca potrebbe investire nelle tante piccole opere che sono anche redditizie e più utili nel lungo termine. La sua partecipazione con fondi garantiti pubblici permetterebbe di attirare altri capitali, però vincolandoli ad un fine di lungo termine e di interesse pubblico e non speculativo.
In ogni caso tramite una parte del risparmio postale si potrebbero sussidiare maggiormente questi nuovi investimenti. Ad esempio si potrebbero aprire conti postali per la sostenibilità dove i singoli cittadini possono scegliere così di aiutare gli interventi di trasformazione.
Ovviamente la banca potrà anche emettere propri titoli per finanziarsi sul mercato. Infatti tutti i suoi investimenti sarebbero lo stesso produttivi nel lungo termine e darebbero un ritorno sugli investimenti. Ma i titoli emessi potrebbero essere rivolti solamente a soggetti italiani o europei, ed avere una lista di esclusione rispetto a determinati fondi ed attori speculativi.
Inoltre per finanziare alcune delle sue attività la banca potrebbe beneficiare della linee di credito della Banca europea per gli investimenti – altro attore oggi pubblico, ma poco sostenibile nella pratica.
In conclusione, serve creatività nel ripensare la finanza pubblica al sostegno di nuove politiche industriali strutturali per la sostenibilità e non creatività finanziaria soltanto (alla Tremonti and co.). Ma c'è un discriminante. L'idea è quella di sancire che la finanza pubblica entri con una prospettiva di lungo termine nell'investment banking per la sostenibilità, e non strumentale come nella proposta del governo inglese di una Public Investment Bank in cui si cerca solo di fare leva sui mercati finanziari privati e di coinvolgere fondi speculativi. Questo vuol dire smontare il mito che una nuova ondata di Public-Private Partenership ci salverà. Servono invece Public-Public Partnership, tra stato centrale ed enti locali ed altri soggetti di interesse pubblico, entro cui il settore privato avrà un ruolo ma anche vincoli precisi e campo d'azione limitato.
Un tale approccio implica due conseguenze. Per primo serve una vera regolamentazione del mercati finanziari che metta al bando alcune pratiche e strumenti (quali i credit default swap su titoli sovrani, lo short selling senza copertura, gli Exchange Traded Funds e gli Index Funds) e vincoli pesantemente l'operato di di alcuni attori (quali i private equity e gli hedge funds). Altrimenti la prossima crisi finanziaria sarà legata allo scoppio della nuova “bolla verde” della green technology, quali le rinnovabili, o i mercati dei permessi di emissione.
Secondo, avere una nuova finanza pubblica di investimento non vuol dire che non bisogna utilizzare l'altro strumento primario dell'intervento pubblico, ossia la fiscalità, che anzi risulta complementare, seppure questa può aiutare nell'attuare politiche redistributive e di incentivo e disincentivo – si pensi all'utilizzo dei combustibili fossili - ma non riesce a coprire tutte le esigenze di nuovi investimenti pubblici. Bisogna tornare all'idea di una carbon tax ed alla proposta di tassazione dell'utilizzo delle risorse naturali – ovviamente in maniera non regressiva e quindi con un approccio progressivo in funzione del reddito. Tali politiche fiscali genererebbero un gettito che andrebbe a sussidiare gli interventi della banca pubblica per gli investimenti, portandoli quindi al di sotto dei tassi di mercato. In tal senso una tassa sulle transazioni finanziarie internazionali non può solo che fare del bene, prima che sia troppo tardi e si verifichi la prossima crisi.
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