Prezzo basso = cibo scadente = scandali alimentari. Rivediamo il rapporto con il cibo, legandolo all’ambiente e alla salute
Gli ultimi scandali alimentari della diossina Made in Germania fanno da megafono a una situazione degenerativa che ci vede, come consumatori, spettatori indifesi di una partita senza scrupoli che si sta giocando sulle nostre teste: quella dei prezzi a discapito della qualità dei prodotti.
Tutto è riconducibile a parecchi anni fa, quando le catene della Grande distribuzione “avvertirono” i produttori: “I nostri clienti devono spendere poco per mangiare”.
Una strategia dettata dal rispetto del consumatore e dall’etica commerciale? Tutt’altro.
Ben presto l’avviso divenne un vero e proprio diktat della Gdo alle aziende: “Quel prodotto alimentare me lo devi dare a questo prezzo, prendere o lasciare”.
Per stare al gioco, cioè sopravvivere, i produttori dovettero adattare i loro prodotti al prezzo di vendita (imposto dalla Gdo). Basso, talmente basso che tutta la filiera venne reimpostata. Basta cercare la materia prima migliore, era diventato necessario reperire sul mercato quella che costava meno. Infine, il taglio dei costi di produzione andò a influenzare anche i controlli, la tracciabilità. Insomma, la sicurezza del consumatore passò in secondo piano rispetto al “Dio prezzo”. Dai oggi, dai domani, questo percorso perverso si è sempre più ingarbugliato. E gli scandali alimentari che puntualmente vengono a galla non sono altro che figli di un sistema ormai esploso.
Proprio in questi giorni una catena della Gdo pubblicizza sulle emittenti televisive un litro di olio extravergine d’oliva al prezzo di 2,99 euro. Ma che olio pensate ci sia lì dentro per 3 euro???
A quel prezzo non si può vendere, eppure vendono. Continuano a vendere. Con il risultato che i costi di produzione necessariamente devono scendere. Chi ci rimette più di tutti in questo marasma è il contadino, che ormai guadagna poco o nulla ed è costretto a fare cose inenarrabili. Ma, soprattutto, chi ci rimette è la nostra salute, perché mangiamo cibo scadente.
Dimenticando troppo facilmente che al centro di questo meccanismo-business ci siamo noi consumatori. Noi siamo i responsabili di quello che mangiamo e forse dovremmo essere più attenti, se non addirittura responsabili in questo senso.
In Germania stanno aprendo gli occhi: gli ultimi scandali hanno fatto impennare la vendita di prodotti alimentari biologici. Perché la verità è solo una: se vogliamo mangiare scandali, allora continuiamo così, altrimenti è al biologico che bisogna rivolgersi. Che però costa di più e quindi la Gdo non lo ignora, perché non potrebbe, ma sicuramente non lo fa entrare nelle sue politiche commerciali.
Certo, la situazione attuale non aiuta. La crisi dei consumi secondo la Cia (Confederazione Italia Agricoltori) ha fatto sì che nel 2009 una famiglia su tre è stata costretta a tagliare gli acquisti alimentari, mentre 3 su 5 hanno modificato il menu quotidiano e oltre il 30% è giocoforza OBBLIGATO a comprare prodotti di qualità inferiore. Tendenze che lasciano senza fiato e che sembrano confermate per il 2010. Anche se poi scopriamo che, al contrario dei pasti, le spese per il tempo libero crescono dell’1,1% e quella della mobilità-comunicazioni (cellulari, computer, tablet, ecc.) aumenta del 2.0%. Quindi si rinuncia al cibo di qualità per il cellulare o per il televisore 3D.
Fatto sta che si vende meno cibo e per giunta scadente. Paradossalmente, non compriamo più prodotti alimentari, ma prezzi.
Come uscire da questo giro vizioso?
Un suggerimento lo dà Andrea Rigoni, amministratore delegato della Rigoni di Asiago, leader in Italia nella prima colazione biologica, in particolare nelle marmellate, rarissimo esempio di aziende Bio di largo successo.
“E’ necessario rivedere il nostro rapporto con il cibo - osserva Andrea Rigoni -. Diverse scuole di pensiero vanno già in questo senso. Il cibo non deve più essere messo in relazione al prezzo, ma ad altri fattori: su tutti, la salute e l’inquinamento del pianeta”.
Raj Patel, studioso della crisi alimentare mondiale e attivista, nel suo “Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo” costata amaramente che i prezzi dei beni sono oggi sistematicamente distorti e che il mercato non riesce più a valutare equamente il valore del lavoro. Tanto che Patel arriva provocatoriamente a dire (anche recentemente, alla Bocconi) che “il giusto prezzo di un hamburger sarebbe intorno ai 200 dollari”. Una cifra calcolata considerando l’impatto ambientale dell’intero ciclo di vita di quel prodotto.
“Oltre all’impronta in termini di carbonio - scrive Patel - si potrebbe aggiungere l’impatto ambientale dovuto allo sfruttamento delle falde acquifere e all’impoverimento del suolo, nonché i costi sanitari impliciti nel trattamento di malattie legate alle abitudini alimentari, come diabete e disturbi cardiocircolatori”.
Patel va nella giusta direzione. Occorrerà sempre di più imparare a distinguere tra prezzo basso e prezzo ingannevolmente basso.
Ambiente, cibo e salute, dunque, vanno unite da unico cordone ombelicale. Per conoscere il valore delle cose e valorizzarle. Se al centro di questa trilogia, che qualcuno chiama già “indice di benessere”, c’è davvero il cibo, allora l’agricoltura biologica deve diventarne la bandiera, il manifesto.
“Perché l’agricoltura biologica fa già parte di un processo relazionale con ambiente e salute - annota Andrea Rigoni -, in quanto la scelta del biologico implica non inquinare l’ambiente, ridurre le emissioni di Co2, favorire la biodiversità, stare lontani dagli Ogm, ridurre il consumo di acqua, produrre alimenti più ricchi di principi nutritivi”.
Non basta? Allora prendo in prestito anche alcuni dati di Roberto Pinton: per ogni ettaro “chimico” cioè di agricoltura convenzionale, si usa una quantità di fertilizzanti e fitofarmaci (chimici) 50 volte superiore a quella che si usa in agricoltura biologica. Per ogni chilo di alimento convenzionale, si usa mezzo etto di sostanze chimiche di sintesi, mentre per ogni chilo di alimento biologico se ne usano 5 grammi (quelli ammessi in biologico). Però il cibo biologico costa un po’ di più di quello non dico “normale”, ma di quello scadente (solo la parola scadente fa pensare ai pesticidi…). Se lo guardiamo meramente come cibo da prezzo. Forse è il caso di cominciare ad aprire gli occhi e la mente. Perché qui è in gioco non solo l’alimentazione futura, ma la vita futura.
Riprendendo una frase di Wendell Berry (“mangiare è un atto agricolo”) Michael Pollan (che è americano, popolo che in fatto di qualità del cibo ha fatto danni epocali, ma è un americano che quando fa inchieste sul Cibo & C è di una lucidità esemplare) nel suo ultimo studio “In difesa del cibo” scrive: “Con quella frase, Berry voleva dire che noi non siamo solo consumatori passivi, ma compartecipi della creazione di sistemi che ci nutrono. A seconda di come spendiamo il nostro denaro, potremmo sostenere un’industria alimentare dedita alla quantità, alla convenienza e al “valore”, oppure una catena alimentare organizzata intorno ai valori, valori come la qualità e la salute. Sì, fare la spesa nel secondo modo richiede più sforzi e denaro, ma quando inizieremo a vederla non solo come una spesa, ma come una forma di voto - un voto per la salute nel senso più ampio della parola -, il cibo non sembrerà più il luogo più pertinente per fare economia”.
Pollan, secondo noi, ha capito tutto.
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