Il clima cambia la politica
Dopo anni di rifiuti, ritardi, polemiche e distorsioni, il cambiamento climatico sta cambiando il clima politico. John Howard, l’ex primo ministro australiano, è diventato di recente il primo leader nazionale ad essere sconfitto alle elezioni in larga misura per non aver saputo dare risposta alle preoccupazioni dei suoi concittadini in materia di cambiamento climatico. Il nuovo primo ministro, Kevin Rudd, ha dichiarato che il riscaldamento globale figurerà in cima alla lista delle sue priorità.
Il risveglio dell’Australia non è soltanto un caso isolato. L’83% dei cinesi è a favore di interventi sul cambiamento climatico. Tra il 2006 e il 2010 la Cina intende migliorare l’efficienza energetica del 20%, incrementare del 15% l’impiego di fonti rinnovabili e portare avanti il programma di rimboschimento su larga scala.
Anche negli Stati Uniti la situazione sta cambiando, anche se troppo lentamente.
Mentre tutti i democratici che puntano alla Casa Bianca sono favorevoli ad interventi decisi per ridurre le emissioni, tra i candidati repubblicani il senatore John McCain è il solo fautore di una legislazione nazionale per combattere il riscaldamento globale, mentre Fred Thompson riconosce sul suo sito web l’importanza del problema, ma nega che sia stato causato dall’uomo.
Nei principali dibattiti in vista delle presidenziali i moderatori hanno posto una sola volta una domanda sul riscaldamento globale. I politologi e i politici non hanno ancora capito cosa sta succedendo alla base e nel Paese.
Alcune settimane fa, cinque Stati del Midwest, tra cui l’Illinois, il Kansas e il Michigan, hanno annunciato l’intenzione di porre un limite alle emissioni di gas serra e di avviare il programma regionale di scambio delle emissioni. Così facendo seguono l’esempio di dieci Stati del nord-est e di sei Stati occidentali guidati dalla California. Tutti insieme questi Stati rappresentano oltre la metà dell’economia degli Stati Uniti. Ventisette aziende – comprese la General Electric, la General Motors, la Dupont, la Capertillar e le altre aziende petrolifere, minerarie e di fornitura di pubblici servizi – insieme ad alcuni importanti gruppi ambientalisti hanno chiesto al Congresso di agire prontamente per fissare un tetto alle emissioni.
Il problema è che il tempo sta per scadere. Questo autunno gli scienziati britannici hanno pubblicato una serie di dati alla luce dei quali le emissioni di anidride carbonica stanno crescendo del 30% più velocemente di quanto precedentemente previsto. L’incremento delle emissioni induce a ritenere che le conseguenze pericolose del cambiamento climatico subiranno un’accelerazione nei prossimi decenni. Per questo la conferenza internazionale in corso a Bali, Indonesia, è un banco di prova cruciale. Sono riuniti i rappresentanti di oltre 180 Paesi per indicare la strada verso un nuovo accordo globale sul controllo del cambiamento climatico. Il mondo sa bene che nessun accordo può funzionare senza gli Stati Uniti. Il presidente degli Stati Uniti da un lato ha riconosciuto che il riscaldamento globale è un problema, dall’altro si è rifiutato di assumere impegni in materia di riduzioni delle emissioni o di accettare un obiettivo globale per fermare l’accumulo di gas serra nell’atmosfera prima che le concentrazioni di questi gas serra raggiungano un livello doppio rispetto a quello delle società pre-industriali. Il presidente George W. Bush deve riconoscere che le prove raccolte finora dimostrano la necessità di intervenire urgentemente per affrontare il problema del riscaldamento globale. Il presidente deve impegnarsi a ridurre le emissioni e sostenere le iniziative bipartisan del Congresso affinché vengano approvati provvedimenti di legge per combattere il cambiamento climatico. Se facesse così verrebbe a trovarsi nella posizione di chiedere ad altre nazioni di fare altrettanto. Ogni Paese presente a Bali sa che non è possibile veder coronati dal successo i nostri sforzi senza la Cina. Anche in questo caso Bush potrebbe svolgere un ruolo guida. Il presidente dovrebbe incaricare il vice Segretario di Stato John Negroponte di recarsi in Cina insieme al ministro del Tesoro Henry Paulson, per trovare con le autorità cinesi un terreno comune per quanto riguarda il riscaldamento globale. Negroponte è stato il funzionario che più si è occupato di ambiente in seno al Dipartimento di Stato sotto il presidente Ronald Reagan e ha svolto un ruolo di primo piano nei negoziati che hanno portato al Protocollo di Montreal per proteggere lo strato dell’ozono, protocollo che ha rappresentato uno dei massimi successi della diplomazia internazionale in materia di ambiente.
Dopo Pechino, il presidente dovrebbe inviare Negroponte a Bali dove, allo stato attuale, gli Stati Uniti sono il solo Paese importante non rappresentato a livello ministeriale. Negroponte dovrebbe redigere una roadmap per arrivare ad un accordo globale equo in grado di ridurre le emissioni e di bloccare il riscaldamento globale al livello di 2 gradi centigradi.
La roadmap dovrebbe allargare l’attuale mercato dello scambio di emission, promuovere un efficiente ed efficace sviluppo tecnologico e un adeguato programma di attuazione e avviare un’incisiva iniziativa per proteggere ciò che resta del patrimonio forestale del pianeta. Ciò comporterà l’esigenza di finanziamenti e investimenti innovativi – e, se le cose andranno bene, creerà nuove, importanti opportunità per l’industria americana. La roadmap dovrà anche cercare di capire in che modo il pianeta si adatterà ai cambiamenti indotti dalla nostra inerzia. Alcune settimane fa il governatore della Georgia, Sonny Perdue, ha intonato una preghiera per far piovere su Atlanta colpita dalla siccità. Alcuni suoi concittadini hanno portato l’ombrello. E’ persino caduta qualche goccia di pioggia. A Bali non dobbiamo limitarci a pregare: dobbiamo lavorare per fare in modo che gli obiettivi che ci proponiamo vengano conseguiti.
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