Pomodori, pesche e angurie invadono in questi giorni le nostre tavole. Hanno un gusto amaro, quello della schiavitù. Sì, schiavitù: sembrava un termine dell’800, ma è quello che sempre più spesso sindacati e associazioni antirazziste usano per definire lo sfruttamento di migliaia di uomini e di donne, in gran parte migranti, che raccolgono ortaggi e frutti nelle nostre campagne.
Giovedì 5 luglio comincia la campagna promossa da Flai, Cgil e Inca per presentare e dare l’avvio al progetto nazionale «Gli invisibili delle campagne di raccolta». Durerà due anni. La Flai denuncia da tempo episodi di sfruttamento nelle campagne (nel Lazio soprattutto nella provincia di Latina). Dopo l’esperienza del sindacato di strada e la mobilitazione che ha visto approvata la normativa che almeno ha reso il caporalato un reato penale, questo nuovo progetto punta a utilizzare camper attrezzati per raggiungere lavoratori e lavoratrici per portare loro assistenza con medici, avvocati, assistenza fiscale e contrattuale. Si comincia il 5 luglio a pochi chilometri da Nardò, scenario lo scorso anno del primo sciopero dei lavoratori migranti.
Questi lavoratori invisibili, spiega un servizio pubblicato da Rassegna.it, arrivano in Italia e si spostano per lo più seguendo le attività stagionali di raccolta: dalle angurie a Nardò alla raccolta dei pomodori nella Capitanata; dalle olive e ortaggi in Salento alla raccolta delle patate e degli agrumi nel siracusano; dalle pesche e ortaggi nel casertano agli agrumi nella piana di Gioia Tauro; dalla raccolta dei pomodori in Basilicata ai prodotti orticoli a Latina; dall’uva in Veneto alle mele in Trentino. Ovunque si registra mancato rispetto dei contratti, lavoro nero, sotto salario, lavoro senza orari e senza sicurezza; i lavoratori sono spesso obbligati a comprare dal caporale anche cibo e acqua. I lavoratori stranieri che vivono simili condizioni di sfruttamento sono oltre 80mila, uomini e donne.