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[Data: 12/07/2012] [Categorie: Ecologia;Economia;Politica; ] [Fonte: A sud] |
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L'involuzione di Rio 20. La green economy è un nemico La Conferenza di Rio sullo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite è stato il culmine di un processo di mistificazione, ideologica e culturale, senza precedenti. Nonostante non vi sia il minimo dubbio che lo sviluppo sostenibile sia un concetto nocivo, un ossimoro o un antinomia, e che la Green Economy sia solo un nuovo strumento a servizio di industrie di natura oligopolistica o monopolistica (trasporti, impiantistica, energia, informatica), il Documento Finale del Simposio ha voluto individuare in questo modello teorico, il futuro pilastro dello sviluppo economico. Nessun impegno o programma per i Governi o per le Agenzie. La Conferenza non è stata solo il fallimento di un percorso iniziato vent’anni fa, ma anche un’autoritaria affermazione del Brasile, complice l’Italia, entrambi membri del Bureau della Conferenza; i due Paesi si sono adoperati per celebrare il settore privato delle grandi industrie del Green al quale, mediante un’ondata di rimedi pseudoscientifici e palliativi, di tecnologie verdi inefficienti e di oscuri finanziamenti pubblici, sarebbe demandata la soluzione dei problemi del mondo, povertà, fame, riduzione della biodiversità, desertificazione, cambiamenti climatici, deforestazione, acqua, rifiuti. La Green Economy, nella Conferenza predicata come una nuova evangelizzazione, esalta l’idea del trasferimento tecnologico “one way”, mentre le industrie fanno il loro business introducendo nel mercato prodotti a rendimento energetico e tecnico praticamente nullo, spacciati per baluardi di salvaguardia ecologica. La Green Economy è responsabile del degrado ecologico ed economico perché, immetendo nel mercato prodotti senza rendimento sociale, energetico ed ambientale, cioè rifiuti, di fatto aumenta a dismisura l'entropia dei processi vitali. L’esaltazione del “Green” ha invaso ogni aspetto e momento del congresso, ha inaridito e reso sterile la ricerca scientifica, ha annullato i preziosi riferimenti ai diritti umani e dei popoli indigeni, alla conoscenza olistica ed interdisciplinare delle questioni ambientali e dell’uso corretto delle risorse, rimasti esclusi dal dibattito. Così come sono rimasti fuori i problemi della crisi economica (meglio dire finanziaria), dell’occupazione, della crisi ecologica e delle risorse. Persino la scelta di collocare a distanza di decine di chilometri le diverse sedi della Conferenza, ha reso il Summit una sorta di baraccone turistico per Rio de Janeiro e non il centro del dibattito di alto livello culturale, scientifico e tecnico, che comunque non c’è stato. Le NGO sono state tenute fuori dalla plenaria dei governi. L’accesso infatti era interdetto anche a chi era munito del badge di accreditamento e per entrare era necessario fornirsi di un ulteriore passi distribuito solo agli “amici” da rappresentanti di NGO opportunamente prescelte. E i cosiddetti “dialoghi”, inventati come luoghi di aperto confronto, sono divenuti presto una fiera delle banalità, nella quale il pubblico, narcotizzato e analfabeta, votava - con una tecnologia elettronica degna di un quiz televisivo, gabellata per democrazia - le indicazioni da dare ai governi scegliendo, a maggioranza, uno fra dieci ipotetici problemi predisposti e salvo successiva approvazione di presunti esperti-clown prescelti dai governi stessi e sotto il controllo attento della numerosa polizia. In effetti ci sono stati alcuni tentativi di protesta contro questo approccio monoculturale ai problemi ambientali e di sviluppo, ma la gestione complessiva della Conferenza ha plasmato il dissenso manu militari, integrandolo, di fatto, come parte del consenso. In ogni caso, solo una strategia oppressiva di manipolazione mediatica, finanziata per anni dai settori pubblico e privato, è stata in grado di convincere il grande pubblico che tecnologie a basso rendimento energetico sono in grado di migliorare la qualità ambientale e addirittura la qualità della vita e ha potuto imporre a scienziati, politici, NGO, Agenzie, media, un modello monoculturale che con il “Green” festeggia un generico ed immaginifico “pensare positivo (perché son vivo, perché son vivo)” come molti giovani sprovveduti ripetevano! A tutti loro va chiesto se si può dibattere seriamente di “energia sostenibile e rinnovabile” fino ad immaginare il mondo interamente ricoperto di pannelli solari, pale eoliche, autostrade verdi ! La Green Economy e l'Industria del Green, insieme ai verdi che le supportano, rappresentano dunque una vera e propria disgrazia culturale ed ambientale a causa della mistificazione che alimentano. Cosa lascia RIO 20? Dire nulla è ottimistico. Rio 20 lascia una pesante involuzione rispetto a vent’anni fa: all’epoca, diversamente da oggi, il dibattito scientifico, di alto livello, portò alla redazione di strumenti guida, ancora in uso, come, ad esempio, l’Agenda 21 o la Convenzione sulla Diversità Biologica; all’epoca il mondo delle Organizzazioni Non Governative, diversamente da oggi, era considerato indipendente ed autonomo rispetto ai Governi, realmente forniva spunti critici e influenzava negoziati, accordi, documenti finali; e, quella che forse è la peggiore considerazione, i diritti, in via di riconoscimento, dei popoli indigeni non erano ancora ridotti ad un aspetto marginale, per non dire folkloristico, del dibattito scientifico da un lato, dell’umanità, dall’altro. E l’Italia? Ha dato il suo pieno appoggio alla propaganda, con un padiglione faraonico e una folta delegazione, composta da ministeriali, industriali e NGO tutti insieme, sotto la guida accentratrice del Ministero dell’Ambiente. Cosa fare per contrastare questo quadro sconfortante? Creare, ad esempio, sorte di vincoli e barriere di incompatibilità per evitare dannose commistioni tra NGO, Governi e Industrie; creare vie di finanziamento indipendenti per consentire alle NGO di partecipare alle attività dell’ONU sulla base di proposte rese note nel corso di Eventi Paralleli; convocare una Conferenza Internazionale per redigere una Convenzione su Bioeconomia e Sostenibilità. Un’ultima proposta, di carattere istituzionale, riguarda il Ministero dell’Ambiente che sembra risultare inadeguato alla sua ragione sociale: struttura troppo debole economicamente per essere immune da interessi privati e troppo grande per lasciare spazio gestionale al Ministero dell’Agricoltura, al Ministero dello Sviluppo Economico e degli Esteri. D’altra parte, c’è da chiedersi, cosa ha a che fare l’opera di salvaguardia delle aree verdi protette con l’economia verde e la vendita delle inutili automobili elettriche? Si abolisca, allora, il Ministero dell’Ambiente, ridotto ad un comitato di affari, fra i maggiori responsabili della reiterata mistificazione del concetto di sviluppo sostenibile ed economia verde e della pericolosa involuzione della Conferenza di Rio 20.
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