c Decrescita? Ozio creativo e relazioni - 12/07/2012 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 12/07/2012]
[Categorie: Decrescita;Ecologia;Economia; ]
[Fonte: comune-info.net/]
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Decrescita? Ozio creativo e relazioni
Comune-info è media partner della Conferenza internazionale sulla decrescita che si svolgerà a Venezia in settembre. Per avvicinarci all’evento pubblichiamo un lavoro di scrittura collettiva: domande e appunti sui quali ragionare, raccolti sotto forma di Frequently asked questions.

L’indice completo delle Faq

 



Faq n.3

Decrescita significa un ritorno a stili di vita preindustriali, «alle candele e alle caverne»?

No. La decrescita comporta un rigoroso controllo degli stili di vita, ma ciò ci renderà più liberi e più sereni.

Ogni volta che si parla di decrescita ci viene contestato, e spesso in modo un po’ sprezzante, che quello che proponiamo altro non sarebbe che un ascetismo ideologico che contrabbanda per desiderabile, a fronte di una supposta minaccia ecologica, una triste e masochistica rinuncia alle comodità e ai piaceri materiali. Saremmo tutti obbligati ad avere meno scelta nel mangiare e nei vestiti, a vivere in una casa al massimo tiepida d’inverno, rinunciare al condizionatore d’estate, a non usare l’automobile e l’aereo, e via dicendo. Come se la riduzione del nostro impatto ambientale sia un passaggio che ci siamo inventati noi ed evitabile se si vuole preservare l’umanità e il pianeta.

I cantori della crescita mancano di realismo e capacità di riflessione e confondono una critica costruttiva ed articolata alla tecnologia, al pensiero calcolante e all’industrialismo [vedi Faq n.8], con un ritorno a stadi premoderni della storia dell’umanità. Esistono infinite ricerche scientifiche che affermano la necessità di rispettare i cicli e i ritmi della natura, degli ecosistemi e di tutto il vivente. In questo non vi è nulla di estremista, ma piuttosto l’assunzione di responsabilità di fronte alle gravi emergenze del nostro tempo. Non possiamo continuare a promuovere modelli tecnologici, economici, etici, ecc. che sono pericolosi perché risultano aggressivi e devastanti nei riguardi della Terra e questo sollecita non solo radicali innovazioni sia nella ricerca scientifica che nelle sue applicazioni industriali, ma anche un cambiamento negli stili di consumo dominanti nella nostra società.

Si tratta di un processo che richiede una profonda motivazione e un vero impegno – e che comporta sicuramente alcune auto-rinunce e l’accettazione di una maggiore sobrietà di vita, ma che va attuato al più presto a varie scale e a ogni livello, anche individuale [vedi Faq n.4].

Non si tratta però di scelte impossibili e, se tutti cominciassimo a modificare le scelte alimentari, a non comprare prodotti usa e getta, a non riscaldare e refrigerare inutilmente le nostre case, a usare la bici o camminare ogni volta che possiamo, a imparare a riparare e a far durare le cose, il miglioramento sarebbe rapido e significativo. Ma non è tutto: chi già lo ha fatto ha scoperto che modificare i consumi non solo è un atto di buon senso in un pianeta ecologicamente allo stremo, ma che semplificare il proprio stile di vita può migliorare la nostra vita quotidiana.

Liberare la nostra vita dal superfluo e dal troppo, ridurre al necessario e trattare con cura le cose di cui ci circondiamo vuol dire riprenderne un vero possesso e usarle per quello che davvero valgono, liberi dalla tirannia della moda e degli status symbol. Soprattutto, consumare meno significa avere meno bisogno di denaro, lavorare meno e recuperare modalità di vita che danno spazio alle relazioni, al miglioramento di sé, e anche all’ozio creativo.

Se le cose stanno così, allora perché mai l’invito ad alleggerire il fardello materiale delle nostre vite, sperimentando «l’abbondanza frugale», suscita scetticismo e rifiuto? Perché è ancora così diffusa l’idea che il nostro benessere dipende dal possesso di oggetti che dovrebbero «renderci la vita più facile»? Soprattutto, perché si continua ad affermare che, poiché i bisogni dell’uomo sono per definizione infiniti, è folle pensare che ci si possa auto-contenere e che l’unica strada è, semmai, arrivare a una crescita più sostenibile mentre la decrescita dei bisogni (e dei consumi) sarebbe pura, ingenua utopia?

Per capire questa difficoltà a rinunciare all’inutile e al dannoso che ci circonda bisogna provare a chiarire cosa intendiamo esattamente per comodità materiali, cercando di definire meglio qual è la soglia che divide il diritto al necessario – e anche al giusto piacere di circondarsi di cose belle – dall’accumulo costante di oggetti superflui. In altre parole dovremmo provare a capire perché i bisogni aumentano anche in una società che possiede più di quanto si sia mai posseduto e in cui gli stessi economisti, attraverso molte ricerche, danno per scontato che sono almeno quarant’anni che in Occidente, a fronte dell’aumento dei consumi, la felicità percepita dalle persone non è aumentata. Anzi!

Certo, nel momento in cui la nostra società ha iniziato a sperimentare la diffusa disponibilità di beni materiali la qualità della vita è migliorata: avere in casa la lavatrice, ad esempio, ha significato una riduzione della fatica nel lavoro domestico, così come ci sono oggetti – il computer o il cellulare – che hanno cambiato le nostre abitudini e di cui non sarebbe semplice fare a meno. Eppure continuiamo a sostituire quello che abbiamo solo per scoprire che il nuovo acquisto è spesso più fragile e mal funzionate del suo predecessore.

Certamente dietro alla spinta all’iperconsumo c’è la volontà delle imprese di produzione di far sì che le cose non durino («obsolescenza programmata», video) per costringerci a ricomprare sempre più frequentemente. É la pubblicità che ci martella in testa l’idea che ogni nuovo prodotto è nato per offrirci quelle qualità, prestazioni ed efficienza che mancano a quello che possediamo già. Ma tutto questo non basterebbe se non fossimo in qualche modo complici di questo sistema: pur conoscendo le dinamiche del marketing riusciamo ancora ad illuderci che il prodotto che stiamo per comprare è utile e capace di migliorare la nostra vita. Siamo noi stessi i primi ad avere «voglia di desiderare» e a temere che, smettendo di farlo, qualcosa in noi si spenga. Siamo assuefatti a consumare e implicitamente convinti che un mondo con meno cose, meno novità, sia triste e noioso.

Il vero motore della società dei consumi è la creazione di desideri. L’atto di acquistare qualcosa – proprio perché non motivato da necessità reali – dà piacere in quanto è fine a se stesso: compriamo solo per esercitare una sorta di illimitata libertà. C’è chi afferma che il massimo di libertà è poter sprecare. Noi, al contrario, pensiamo sia auspicabile affrancarsi da questi meccanismi psicologici e provare a sperimentare una vita più semplice e meno frenetica, accettando di porre dei limiti al desiderio di possesso. Questo può significare il ritrovare la capacità di aprirci a soddisfazioni sicuramente più ricche e profonde.

Quindi, al fondo, non è poi così assurdo accettare con onestà e apertura mentale la sfida che ci viene dal «mondo antico» o di culture che non hanno scelto la modernità occidentale [vedi Faq n. 19]. Il fatto di riprendere importanti insegnamenti dal passato, coniugandoli con gli sviluppi più avanzati delle scienze, della filosofia, dell’etica, della cultura in generale è indispensabile per elaborare un nuovo paradigma di civiltà, in alternativa a quello ancora dominante incapace di affrontare costruttivamente i gravissimi problemi ambientali, economici, sociali, etici e spirituali provocati dalla sua stessa affermazione [vedi Faq n.15].

 

Letture essenziali

Zygmunt Baumann, Homo Consumens, Centro Studi Erickson. 2007.

Gianfranco Bologna, Maunale della sostenibilità, Ed. Ambiente, 2005.

Edward Goldsmith, La grande inversione, F. Muzzio, 1992.

Erich Fromm, Avere o essere?, Oscar Mondadori, 1977.

Serge Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo, Bollati Boringhieri, 2005.

Gianfranco Bologna, Manuale della sostenibilità, Ed. Ambiente, 2005.

Majid Rahnema, Jean Robert, La potenza dei poveri, Jaca Book, 2010.

Wolfgang Sachs, Archeologia dello sviluppo, Macroedizioni, 1992.

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