Il clima nell´ultima provincia dell´impero
In un contesto in cui a problemi complessi si danno soluzioni semplici (e apparentemente di buon senso), anche la risposta italiana alla crisi climatica mondiale è una semplificazione di un problema enorme e complicato, ma con l´aggiunta di elementi che, se dati in buona fede, dimostrano un´ignoranza sui temi ambientali che fa restare allibiti. L´Italietta alza la voce dalle regioni remote dell´impero e costituisce un asse di ferro nientemeno che con Polonia e qualche ex provincia sovietica per una battaglia che più di retroguardia non si può. Un provincialismo che parte dall´Alitalia, passa per le impronte digitali ai minori rom e trova la sua degna conclusione nelle tematiche ambientali. E poco importa se l´ultimo stato di avanzamento dell´IPCC ricorda che il cambiamento climatico sarà "stronger, faster and sooner", cioè che avverrà più velocemente di quanto gli stessi scienziati avessero già previsto nel rapporto 2007. Come a dire che non si dovrebbe perdere altro tempo e ridurre le emissioni clima alteranti dal 25 al 40% entro il 2020, mentre, invece, le obiezioni opposte al pacchetto energia dell´Unione Europea dall´Italia vogliono procrastinare ogni decisione. Sono obiezioni di tre tipi, di costi, di adesione ai trattati internazionali e dei rapporti fra economia e ambiente.
A prescindere dal balletto delle cifre su quanto effettivamente pagherà l´Italia per il pacchetto riduzione delle emissioni, la vera domanda è se costerà troppo e la risposta è comunque no. Ci sono ormai decine di calcoli che dimostrano che è il non fare nulla per opporsi al deterioramento climatico ad avere costi che saranno insostenibili: i danni derivati saranno presto pari al valore totale di tutto ciò che l´umanità produce in un anno. E ci sono diversi esempi di aziende, importanti, presumibilmente come le nostre, che in tutto il mondo si riconvertono evitando emissioni inquinanti e guadagnandoci pure, perché risparmiare combustibili fossili è ormai più conveniente che acquistarli. La Du Pont ha aumentato la sua produttività del 30% negli ultimi dieci anni riducendo del 7% il consumo di energia e del 72 % (!) le emissioni di gas-serra, mentre IBM e Bayer hanno risparmiato oltre due miliardi di dollari abbassando le emissioni del 60%. Perfino BP ha risparmiato costi energetici per 650 milioni di dollari abbattendo le emissioni di anidride carbonica del 10%. Uno studio dell´Università di Tor Vergata (e di Angelo Bonelli) computa a 22 miliardi di euro i costi economici, sanitari e sociali dell´inquinamento e del cambiamento climatico (1,3% del PIL) e che comprendono: ritardo per l´applicazione del protocollo di Kyoto (2 M euro/anno), malattie da inquinamento atmosferico (6), costi esterni del trasporto (8), carenza di acqua e desertificazione (3), dissesto idrogeologico (2,5),
A scala mondiale, se riducessimo le emissioni globali del 40% (portandole a 12 miliardi di tonnellate/anno di anidride carbonica) i 220 miliardi di dollari all´anno teoricamente necessari corrisponderebbero allo 0,3-0,5% del pil mondiale fino al 2030. La spesa mondiale per rimediare ai danni del cambiamento climatico corrisponderebbe, nello stesso periodo, a una cifra ben superiore, fra il 5 e il 20% del pil.
Quando diventerà conveniente, si dice, e si faranno affari sulla mitigazione del cambiamento climatico, allora il libero mercato sistemerà le cose e si darà inizio alla ristrutturazione ecologica del pianeta. Inutile per questo ottemperare agli accordi di Kyoto che non si addicono alla crescita economica mondiale, soprattutto in un momento di crisi. Il problema è, però, quel "quando": se le corporation che governano di fatto i Paesi ricchi non si sono ancora fatte convincere dai dati degli scienziati, cosa le convincerà mai ?
Il protocollo di Kyoto non ha risolto certo la crisi climatica, ma almeno fissa vincoli di legge e crea un diritto internazionale dove prima c´era solo deregulation selvaggia e poi consente uno sviluppo significativo delle energie rinnovabili. Rinegoziare Kyoto al ribasso perché gli Stati Uniti non hanno ratificato il protocollo o perché non l´hanno fatto ancora Cina e India è paradossale: i Paesi effluenti vanno aiutati dagli sforzi economici e tecnologici di chi per secoli ha depredato il pianeta inquinandolo e oggi scopre, guarda un po´, che anche gli altri vorrebbero svilupparsi. Evitiamo almeno che facciano gli errori degli Stati Uniti dove il 5% della popolazione mondiale consuma il 40% delle risorse e inquina per il 35%: metà della produzione di energia elettrica di quel paese viene prodotta ancora con il carbone come un secolo fa.
Chi sostiene che l´economia viene prima dell´ambiente dovrebbe ricordare che qualsiasi sistema economico è un sottosistema della biosfera, che è sempre esistita anche senza l´economia, mentre è impossibile che avvenga il contrario. Il capitale economico matura proprio a spese del capitale naturale, che, però, purtroppo, è limitato nei fatti: per quanto ancora seguiremo l´incantamento della crescita esponenziale, per definizione impossibile? Insomma, senza un ambiente in buona salute non ci sarà nessuna attività produttiva, almeno non su questo pianeta. A chi lamenta che il prezzo non dovrebbero accollarselo le industrie già fiaccate dalla crisi finanziaria è facile ricordare che è proprio chi è responsabile del danno che dovrebbe pagarlo, a meno di non volerlo ridistribuire fra i cittadini, sulla cui incazzatura converrà cominciare a contare.
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