Ambiente, un nuovo paradigma per l´industria del futuro
LIVORNO. In un periodo di vacche magre il primo a rimetterci è l’ambiente. Lo fa notare oggi Giovanni Sartori in un editoriale sul Corriere della sera, riassumendo quello che sta avvenendo rispetto agli impegni sul protocollo di Kyoto e sul pacchetto clima energia dell’Unione europea. Una storia già vista, potremmo sottolineare, ma questa volta il rischio è che a rimetterci non sia solo l’ambiente o la credibilità del nostro paese in uno scenario internazionale. Il rischio è che a perderci potrebbe essere l’intera economia del paese, che finita (quando sarà) la crisi economica planetaria si ritroverà con le pezze sia sull’ambiente sia sul sistema industriale e quindi sull’intero sistema economico e sociale. In altre parole si sarà giocato insieme all’idea di futuro anche il futuro stesso.
I segnali sono tanti e non riguardano solo le immediate conseguenze della crisi finanziaria sull’economia reale, con cassa integrazione per centinaia di lavoratori e chiusura definitiva di stabilimenti. Comprendono anche quelle situazioni che già erano in difficoltà prima ancora della crisi e lo erano proprio per una incompatibilità- ormai portata all’estremo- tra i processi obsoleti e l’impatto generato sull’ambiente.
E’ stato così per il polo petrolchimico di Porto Marghera, che rischia la definitiva chiusura con effetto domino su tutti gli altri distretti della chimica italiana, è così per le acciaierie Ilva di Taranto, dove la necessaria ambientalizzazione dello stabilimento, sta producendo (per ora) poco più che uno scontro tra competenze regionali e nazionali.
Ma più che sbagliato sarebbe esiziale riportare il dibattito sulla contrapposizione tra ambiente e sviluppo, come fa oggi Jaoquin Navarro Valls, sulle pagine di Repubblica, ovvero su una visione novecentesca del problema. «Per poter inquinare bisogna prima produrre» dice Valls e aggiunge: «affinché la questione ecologica diventi un criterio etico fondamentale di una seria e moderna politica industriale è necessario che vi sia un sovrabbondante sviluppo». Come dire se non c’è sviluppo non ci sono fondi per pensare all’ambiente, in una logica in cui pensare alle questioni ecologiche equivale (semmai) solo a ripulire ciò che si è sporcato.
Appunto una logica del secolo scorso, che ha molto poco a che vedere con una moderna politica industriale. Una logica da ambiente come "costo" e non come "investimento" come pure ha osservato Veltroni nel discorso alla manifestazione del Pd di sabato.
E che l´ambiente non sia solo emozione ma economia e investimento per il futuro, ce lo dimostrano i numeri che sono in gioco in altri paesi della stessa Europa, per non voler andare un po’ più lontano. Dove non si è abdicato all’idea di far marciare l’economia sui capisaldi dell’industria (di una industria moderna e pulita), come del resto è invece avvenuto nel nostro paese che ha mano a mano smantellato una politica industriale, seguendo l’abbaglio del dinamismo finanziario e svendendo il territorio per perseguire le facili rendite immobiliari, puntando quindi, soprattutto, sulla politica del mattone.
Una scelta che ha lasciato per strada pezzi del sistema industriale ormai obsoleto, non ha fornito il necessario sprint per rinnovare i processi, per sviluppare ricerca e innovazione tecnologica per reimpostare nuovi modi di produrre, che ha lasciato orfani distretti e non ha accompagnato quelle eccellenze che pur (da sole) si sono sviluppate.
Nei paesi in cui si è fatta la scelta di dare spazio a ricerca e nuove filiere, di rinnovare processi di produzione, di puntare all’innovazione tecnologica indirizzata alla sostenibilità ambientale, si è ottenuto anche il risultato di una maggiore sostenibilità sociale, si è creata nuova occupazione e stabilità. Laddove si è fatta una politica industriale che ha sperimentato nuovi paradigmi, non si è smesso di produrre e non si è però nemmeno continuato a produrre con gli stessi schemi e i risultati sono inconfutabili. Solo per rimanere sul tema dell’energia, la Germania non ha solo investito nelle politiche energetiche, ma ha sviluppato una filiera, ha fatto ricerca, innovazione, con il risultato che il settore delle fonti rinnovabili dà oggi lavoro a 250 mila occupati e fattura 25 miliardi di euro.
Ma lo stesso si potrebbe dire nel campo del trattamento dei rifiuti, dove quello che da noi rappresenta un fastidio, una pesante incombenza è diventato invece occasione per sviluppare una nuova filiera e quindi fatturato e occupazione. E perché allora non potrebbe valere anche per le nostre industrie, perché nelle acciaierie dove per ogni chilogrammo di prodotto si ottiene mezzo chilogrammo di rifiuti, che potrebbero prestarsi ottimamente ad essere utilizzate al posto di materia vergine, non si fa? E si rimane invece ancorati ad un approccio che è sempre quello di trovare un buco o una area dove stoccare questi materiali, consumando nuovo territorio e rinunciando a sviluppare nuove tecnologie, nuovi processi, nuove filiere produttive. Perché la logica risponde appunto a quella descritta da Navarro Valls, in cui parlare di ambiente significa al più (e quando va bene) ripulire ciò che si è sporcato.
Una logica che (purtroppo) tiene bene insieme spaccature tra politiche ambientali e politiche industriali, tra posti di lavoro e ambiente salubre, che non vede il nesso tra riconversione industriale e ricerca, tra innovazione tecnologica e sviluppo di nuove filiere produttive, tra necessità (ormai ineludibile) di far viaggiare assieme economia ed ecologia.
Un approccio che fa perdere di vista il fatto che se non si coglie l’opportunità, che ci è data da questo particolare momento congiunturale, per ripensare ad una nuova politica economica, che non può prescindere da una nuova politica industriale, il nostro futuro sarà molto peggio dell’attuale momento di vacche magre, o meglio magrissime, come dice Sartori.
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