2020, nucleare o rinnovabili
ROMA. Il polverone sollevato in questi giorni sui costi legati al raggiungimento degli obbiettivi di Kyoto e la contemporanea svolta nucleare del governo impongono una riflessione di fondo sulle opportunità (mancate) del paese e sulle importanti decisioni dei prossimi mesi che rischiamo di replicare il film delle scelte perdenti.
Quando l’Italia uscì dal nucleare 20 anni fa, perse un’occasione storica per reindirizzare la propria politica energetica. Se avesse infatti puntato con determinazione sulle rinnovabili avrebbe creato nel corso degli anni Novanta una importante industria che, ora, in pieno boom mondiale delle energie verdi, potrebbe giocare un ruolo di rilievo con esportazioni per molti miliardi di euro all’anno.
Né si può dire che i tempi erano prematuri, perché proprio in quel periodo la California si lanciava nell’eolico e nel solare termodinamico, il Giappone e la Germania nel fotovoltaico, la Danimarca nell’eolico, mentre il nucleare entrava in un inarrestabile oblio.
Dunque, un’occasione persa per la mancanza di visione strategica della nostra classe politica e imprenditoriale.
Adesso ci troviamo in un altro momento critico, di svolta, se vogliamo di segno opposto. Infatti siamo di fronte ad un riorientamento degli investimenti verso le fonti rinnovabili, con una crescita rapidissima a livello internazionale, rafforzato in Europa dall’obbiettivo legalmente vincolante al 2020.
Non si tratta perciò questa volta di fare da apripista, ma di trovare uno spazio nel processo di gigantesca trasformazione avviatosi. Questo rinnovamento può offrire grandi opportunità alle nostre industrie ma, in mancanza di rapida reattività del sistema, rischia di relegarci nel ruolo di paese importatore di tecnologie verdi.
Dunque, invece di lamentarsi, governo e imprenditori dovrebbero comprendere come sfruttare l’obbiettivo del 2020 per creare una solida industria delle rinnovabili in grado, nel giro di 5-6 anni, di esportare tecnologie nel mercato energetico con i più alti tassi di crescita.
E invece? Sottraiamo intelligenze, tempo e risorse per inseguire una soluzione in cui partiamo da zero, non esiste un consenso politico e non riusciremo mai a ricavarci un reale spazio nella competizione internazionale.
Senza contare che i nostri reattori, entrando in funzione tra il 2022 e il 2030 non potrebbero aiutarci a raggiungere gli obbiettivi legalmente vincolanti della fine del prossimo decennio (rinnovabili e riduzione dei gas climalteranti), rendendo altamente probabile il rischio di forti sanzioni per il nostro paese.
E quando mai le centrali dovessero vedere la luce, dovrebbero confrontarsi con i costi delle rinnovabili che nel giro di 10-15 anni saranno diventate altamente competitive. Dunque, una scelta che dal punto di vista della politica industriale rischia di essere un altro fallimento, distogliendo l’attenzione dalla vera sfida di creare una solida industria dell’efficienza e delle rinnovabili.
Riepilogando: venti anni fa alla chiusura del nucleare non è seguito un cambiamento strategico di politica energetica, facendoci perdere un’occasione storica di leadership nelle tecnologie verdi. Adesso che il treno delle rinnovabili è già partito a livello internazionale, la riapertura del capitolo del nucleare rischia di farci perdere l’occasione di un riaggancio e di provocare una irreversibile marginalizzazione industriale.
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