Clima, gli Usa sono della partita
L’amministrazione Obama inizia il suo cambio di rotta verso un accordo internazionale per il clima. Il Presidente prepara il terreno per gli obiettivi di riduzione al 2020 e i segnali sono tutti in controtendenza rispetto all’epoca Bush. L’editoriale di Gianni Silvestrini.
Gli Usa si stanno muovendo sul clima con decisione e realismo, elementi caratteristici della leadership di Obama. In pochi giorni diversi sono i segnali positivi lanciati. L’Environment Protection Agency (EPA) ha ufficialmente inviato alla Casa Bianca una proposta per includere l’anidride carbonica tra i gas dannosi per la salute pubblica e il benessere economico. Era stata la Corte Suprema nel 2007, sotto Bush, a richiedere che l’Epa si pronunciasse. Questo passaggio è giuridicamente importante per poter avviare legislazioni di contenimento dei gas serra, come l’emissions trading.
Obama, da parte sua, ha organizzato a Washington per il 26 e 27 aprile una riunione dei 16 Paesi più rappresentativi economicamente, estesa al Segretario delle Nazioni Unite, per preparare il terreno in vista della Conferenza delle parti di Copenhagen a dicembre. È curioso il fatto che quello di Washington rientra in una serie di incontri che Bush aveva promosso negli anni scorsi in alternativa alle iniziative delle Nazioni Unite. Sempre Obama ha chiesto poi che si tenga una sessione speciale sul clima al G8 organizzato a La Maddalena in luglio.
Lunedì 30 marzo Todd Stern, capo della delegazione Usa sui cambiamenti climatici, ha pronunciato un discorso appassionato all’assise di Bonn dell’United Nations Framework Convention on Climate Change, preparatoria della Conferenza di Copenaghen, interrotto dagli applausi dei 2.500 delegati. «Saremo potentemente e ferventemente coinvolti» ha esclamato, facendo entusiasmare diversi delegati americani abituati a sentire commenti di disapprovazione rispetto alle politiche del loro Paese. Gli Usa, ha affermato Stern, si candidano alla leadership della battaglia sul clima, sottolineando però che ciascun Paese deve fare la sua parte.
Passando ai numeri, al momento la proposta Usa è di riportare le emissioni del 2020 sui livelli del 1990. Si tratterebbe di una riduzione del 17% rispetto ai valori attuali. Qualche ambientalista Usa critica come non sufficientemente ambizioso questo obbiettivo, ma l’Amministrazione Usa sostiene che fare cambiare rotta a una portaerei in corsa non è semplice e che, d’altra parte, il secondo obbiettivo dell’80% al 2050 rappresenta un chiaro segnale della radicalità dei tagli che dovranno essere apportati nei prossimi decenni.
L’aspetto critico delle dinamiche statunitensi resta comunque il rapporto tra un’Amministrazione lanciata decisamente più avanti per cogliere le opportunità connesse con la green economy e un Congresso che deve approvare alcuni passaggi legislativi decisivi per la partita del clima. Obama non vuole rischiare - con una fuga in avanti - di ripetere quanto avvenuto con il Protocollo di Kyoto, quando il Senato bocciò per 97 a zero la proposta di riduzione perché non venivano coinvolti i Paesi in via di sviluppo. Proprio per questo gli Usa stanno facendo un lavoro molto intenso per preparare il terreno a un accordo che coinvolga tutti i Paesi del Pianeta. Significativamente, nelle settimane scorse Hillary Clinton, nel suo viaggio in Cina, aveva messo la questione climatica in cima alle priorità delle relazioni tra i due Paesi responsabili delle maggiori emissioni climalteranti.
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