Crescita vs pauperismo: gli occhi dell´Italia non vedono lontano
Lo sviluppo sostenibile e l´economia ecologica (sembrano) assenti nel dibattito del nostro Paese
In tutto il mondo, non solo negli Usa governati da cento giorni da Barack Obama, è in atto una riflessione su quale possa essere il nuovo paradigma economico necessario per affrontare a partire dalla crisi economica i cambiamenti epocali che abbiamo di fronte. Anche in Europa si assiste infatti a un fiorire di commissioni, cui partecipano economisti, studiosi, politici e istituzioni , che si interrogano su quali siano i necessari prodromi per costruire un nuovo modello economico che sia in grado di garantire benessere all’umanità mantenendo in vita l’elemento essenziale perché questa garanzia possa essere data, ovvero il capitale naturale.
Senza preservare infatti l’elemento cui si poggia l’intera economia, l’economia stessa è una disciplina ( o una scienza a seconda di come la si pensi) destinata all’obsolescenza e all’inutilità.
Vedi il rapporto Stern, del governo Blair, o la commissione per lo Sviluppo sostenibile del governo del Regno Unito, o quella voluta dal presidente francese Nicholas Sarkozy e presieduta da Joseph Stiglitz , Amartya Sen e Jean Paul Fitoussi, tanto per fare qualche esempio.
Solo nel nostro paese questo dibattito non viene affrontato con la necessaria autorevolezza e spesso rischia di cadere in un confronto tra conservatori delle proprie rendite di posizione culturali, senza cioè che si faccia il minimo sforzo per apprendere nuovi elementi con cui costruire un rinnovato punto di vista.
Un esempio di questo approccio ci viene oggi dalla lettura dei giornali in cui troviamo, ma non è solo di oggi, il contrapporsi di due modi di vedere le cose che niente di fresco portano al dibattito su come costruire un nuovo modello che non si rifaccia né al pauperismo o alla nostalgia del tempo andato né al mantenimento del paradigma economico che ha al suo baricentro il totem della crescita come cifra per poter poi pensare anche al resto, all’ambiente in particolare, ma che tenti invece di imboccare la strada per dare una risposta alla crisi economica e a quella ecologica assieme, che rimanda cioè all’economia ecologica.
Il dialogo che ci propongono Olmi e Petrini su Repubblica, due persone emerite per la cultura del nostro paese, che invocano il ritorno alla terra come ricetta taumaturgica per liberarsi dalle pastoie dell’attuale modello consumistico e per recuperare l’essenza del vivere, pone il futuro sotto una chiave bucolica che se anche da una parte può essere visto come un bagno purificatore per la società del benessere occidentale, difficilmente potrà dare risposte a quella parte di mondo che ancora la scorpacciata di quel benessere non l’ha fatta e che vorrebbe affacciarsi alla tavola dove sino ad ora hanno mangiato, e si sono abbuffati, altri a loro spese.
Così come il richiamo alla necessità che «i consumatori cinesi facciano il loro dovere, cioè consumino» come spiega Alberto Alesina in un suo editoriale sul sole 24 ore e aggiunge «che lo facciano più che possono nei prossimi mesi» perché questo garantirà la ripresa economica, e una volta ottenuta «quando fra un anno o due la crisi sarà passata» la Cina e il resto del mondo potranno preoccuparsi dell’ambiente, è una visione arcaica della sostenibilità.
Un approccio che si ostina a non voler vedere come l’economia sia sottordinata al sistema naturale, e quindi l’ambiente come una matrice da sfruttare per produrre sviluppo e ricchezza, necessari per poterlo ripulire dopo averlo lordato, ma non come l’elemento prioritario senza il quale l’economia stessa non è data.
«Diciamolo a chiare lettere - dice Alesina - se uscire dalla crisi nel 2010 significasse inquinare ancora per una anno ai ritmi attuali, facciamolo pure. Poi, con calma, usciti dalla crisi e dal rischio di una lunga depressione, ci dedicheremo con rinnovato vigore a proteggere l’ambiente. A quel punto ne varrà la pena senz’altro, anche se costerà un po’ di crescita del Pil. Che allora (probabilmente) non sarà più in rosso».
Quindi perché investire oggi, quando serve di rimettere immediatamente in moto la locomotiva dello sviluppo, in tecnologie verdi che potrebbero, semmai domani, dare esiti positivi ma non certo effetti immediati?
Un approccio che tradisce una visione classica dell’economia che non riesce a svestire i panni della crescita come must e come unica ricetta dello sviluppo capace di risolvere una crisi con gli stessi strumenti che l’ha creata.
Cui risponde l’approccio che vede la tecnologia e la ricerca come «potente fattore di crescita» come spiega Innocenzo Cipolletta sempre oggi sul quotidiano economico, non tanto però per innescare germi utili a chiudere il saldo tra crisi economica e crisi ambientale, ma perché la ricerca «rende obsoleti i beni e i servizi che imprese e famiglie utilizzano, indicendo a fenomeni di sostituzione accelerata» e quindi «dei consumi di tutte le famiglie in tutto il mondo».
Ma se è indubbio che innovazione e ricerca sono due elementi indispensabili da mettere in campo per costruire uno sviluppo più durevole e in grado di portare benessere a chi non ce l’ha, è altrettanto indubbio che è indispensabile orientarli verso una direzione capace di tenere in conto del capitale naturale di cui disponiamo ora, e che non è detto che possa ancora essere disponibile dopo, se continuiamo ad eroderlo con la stessa velocità con cui lo abbiamo fatto sin qui.
E proprio perché, come dice giustamente Cipolletta, «le crisi, con i loro disagi, agiscono anche da grandi acceleratori d’innovazioni» ecco che è importante ora dare il giusto orientamento alla ricerca e all’innovazione, per rilanciare una economia e far ripartire la locomotiva, mettendola però sui binari giusti, per evitare che si ritrovi, da qui a poco, su un binario morto.
Quello che serve adesso e proprio ora è cioè una visione mutata di quale debba essere la strada da percorrere, e per dirla con le parole di Herman Daly, citato poco tempo fa da Gianfranco Bologna su questo giornale, «il mutamento di visione necessario consiste nel rappresentare la macroeconomia come un sottosistema aperto di un ecosistema naturale non illimitato (l’ambiente), anziché come un flusso circolare isolato di valore e scambio astratto, non vincolato da equilibri di massa, entropia ed esauribilità».
Una visione che purtroppo non si ritrova nel dibattito in corso nel nostro paese.
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