Invertire la rotta
Ecco perché la crisi fa bene all’ambiente
“Imparare dalla crisi”: lo dicono in molti. Ma per fare che cosa? Per cambiare il mondo, se no finisce. Liberazione, 1° maggio 2009
A Pechino si respira meglio, tornano i turisti sul Lago Baikal, sembrano riprendersi le foreste brasiliane. Non par dubbio: come puntualmente detto su queste pagine da Simonetta Cossu, la recessione fa bene all’ambiente. Tra sensazionalismo di certa informazione, sconcerto dell’imprenditoria mondiale, e qualche battuta d’arresto delle tecnologie salva-clima, sembra mancare la considerazione più ovvia: dunque è vero che produrre meno sarebbe il modo più sicuro per ridurre l’inquinamento e arrestare la catastrofe ecologica. Proprio come da oltre mezzo secolo affermano gli ambientalisti.
E così pure sembra mancare ogni riflessione sul fatto che da parecchi anni ormai le energie rinnovabili sono state messe all’opera di fronte alla minaccia di esaurimento dei carburanti fossili, ed è stato lanciato il “green business” in tutte le sue molteplici forme; e però il clima, e la crisi ecologica nel suo complesso, hanno continuato ad aggravarsi. Come mai? Non dipenderà dal fatto che, mentre sole e vento e quant’altro andavano producendo energie rinnovabili, il fabbisogno energetico continuava ad aumentare con l’aumento complessivo del prodotto? Aumento di cui tra l’altro erano parte anche produzione di ventole, pannelli solari, vetroresine, ecc., rottamazione di auto e fabbricazione di nuove vetture “ecologiche” destinate a sostituirle, invenzione di lampade, ventilatori, pile, a basso consumo, a rimpiazzare oggetti analoghi ancora funzionanti, e così via?
Il discorso sarebbe lunghissimo. Ma insomma, è ragionevole credere che aumentare del 20 o più per cento l’efficienza di un’auto riduca l’inquinamento se al contempo il parco macchine raddoppia? O che una barca superecologica migliori le condizioni di aria e acqua se il numero dei natanti continua a crescere, ed esige sempre nuovi porti turistici? O che sia innocuo il continuo moltiplicarsi di grattacieli, sia pure costruiti secondo le più sofisticate ecoregole? Già, perché tra l’altro (come dice Giovanni Sartori, l’unico a ricordarsene) “il problema non è solo il clima”. C’è l’inquinamento crescente dell’acqua dolce, potabile in quantità via via più ridotte. Ci sono mari invasi da immondizie di ogni sorta e sempre meno pescosi. C’è la tossicità diffusa che sconsiglia l’uso agricolo di cospicue porzioni di terreno, e in mille modi colpisce la salute e moltiplica i tumori. C’è l’immane problema di soddisfare le esigenze di una popolazione che si approssima ai sette miliardi.
Imparare dalla crisi. E’ un’esortazione ricorrente, specie a sinistra. Certo, la crisi avrebbe molto da insegnarci. Ma che cosa esattamente? E per quale obiettivo? Sviluppo verde e crescita verde, sono gli auspici più ripetuti. L’efficienza energetica è la nostra sfida, si afferma: secondo un modello energetico ecocompatibile e insieme competitivo, si precisa. Si auspica infatti un’Italia “in pole position nell’efficienza energetica”, e “appostata su un continuo trend di sviluppo”, cui contribuiscano innovazione tecnologica e più alta produttività del lavoro. Altrettanto più o meno si invoca in tutto il mondo. Così che la crescita presiede anche alla progettazione di energie verdi, di tecniche non inquinanti, di sistemi ecologici. La quantità continua ad essere la categoria dominante di un processo che dovrebbe significarne il superamento. Anzi il rovesciamento. “Perseguire la crescita attraverso una via ecologicamente sostenibile”, si esorta con candida ignoranza (o malafede?). Mentre dovunque si progettano grandi opere, nuove reti autostradali, alte velocità, città da costruire ex-novo, dighe gigantesche, trivellazioni di profondità alla ricerca di minerali prossimi alla fine. “E fa bene anche all’ambiente,” recitano garrule le voci della pubblicità, nell’invitare all’acquisto di una nuova auto o di un panfilo superlusso.
Che il potere economico, e quella sempre più cospicua porzione del mondo politico che lo supporta, insistano su ripresa, rilancio, crescita, in una sorta di insensato accanimento autoterapeutico, si può capire. Ma le sinistre? Certo, la loro responsabilità verso il lavoro e le condizioni delle classi che più soffrono la crisi, in qualche misura spiega la loro difficoltà di iniziativa di fronte alle mille urgenze di oggi, e la loro fedeltà all’icona dello sviluppo, che logori ossimori come “sviluppo sostenibile”, o proclami alla “sfida della produzione verde”, non rendono più chiara né più convincente.
Certo, cambiare il mondo (ché di questo si tratta) non è un gioco. E però è il fine per cui le sinistre sono nate. E se c’è un momento in cui il mondo domanda di essere cambiato, quello è oggi. Difficile negarlo, tra l’altro, in presenza di un’industria bellica che nella crisi generale è la sola a godere di buona salute, con un intatto 3,5 % del Pil mondiale (5,4 del Pil Usa). Vivere di guerra sarà la nostra scelta? E dire che un disarmo generale sarebbe il modo più sicuro per dar respiro all’ambiente e a noi tutti… E che una forte riduzione dei tempi di lavoro non solo garantirebbe l’impiego di quanti operano nel settore, ma a tutti aprirebbe spazi di libertà che da sempre le sinistre sognano…
Difficile, non lo nego. Ma ci sono altre cose che si potrebbero tentare, prima che la recessione rimanga l’unico verde cui affidarsi. Esempio: produrre merci di lunga durata, anziché come oggi programmate per pochi anni (o mesi, a seconda del genere); riscaldare e refrigerare gli interni molto meno di quanto oggi dovunque assurdamente si faccia, anche con conseguenze negative sulla salute (tanto buon Pil in più?); eliminare gran parte degli imballaggi e contenitori di ogni oggetto in vendita; programmare la “filiera corta”, cioè la messa in commercio di prodotti (soprattutto commestibili) per quanto possibile provenienti da località vicine, così da eliminare al massimo i trasporti. Eccetera. Ma anche tutto ciò, che molti verdi propongono con insistenza, non è cosa facile da porre in essere (se non in soluzioni “di nicchia”) finché la crescita rimane il nostro vangelo.
In realtà qualsiasi provvedimento che possa salvare l’umanità dalla catastrofe ecologica è un gesto rivoluzionario. E’ parte della rivoluzione anticapitalista. Una cosa che una volta le sinistre si proponevano. E oggi?
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