Biocarburanti e altalena dei prezzi alimentari
I Paesi Occidentali si sono confrontati per la prima volta nella storia moderna con la necessità di reperire fonti energetiche alternative durante la crisi petrolifera degli anni ’70. Il caro greggio e la paura che la dipendenza dal petrolio potesse portare a un tracollo economico hanno spinto USA e Brasile, per primi, a investire in fonti rinnovabili.
Il momento decisivo si è avuto con la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, un trattato ambientale internazionale prodotto dalla Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite, informalmente conosciuta come Summit della Terra, tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. Obiettivo dichiarato del trattato era “raggiungere la stabilizzazione delle concentrazioni dei gas serra in atmosfera a un livello abbastanza basso per prevenire interferenze antropogeniche dannose per il sistema climatico”.
In origine non poneva limiti obbligatori per le emissioni di gas serra alle nazioni individuali; era quindi legalmente non vincolante; è solo con la firma del protocollo di Kyôto che i paesi industrializzati si sono impegnati a una riduzione dell’emissione di gas serra di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990, nel periodo di adempimento che va dal 2008 al 2012, attraverso l’implementazione di progetti di protezione delle foreste e rimboschimento e nell’esportazione di tecnologie innovative per la riduzione di emissioni inquinanti nei paesi in via di sviluppo. Ciascun paese, nel rispetto di quanto stabilito, ha adottato gli strumenti che riteneva più adatti, dalla carbon tax a prestiti, sovvenzioni e sussidi.
Attualmente, grazie a tali politiche, la percentuale di biocarburanti liquidi in rapporto alla fornitura totale di petrolio grezzo è di poco inferiore all’1% e pari a 4.800 miliardi di litri. Seppur ancora lontani dagli obiettivi, a livello internazionale si sta facendo molto per definire delle strategie comuni che incentivino ulteriormente l’adozione di biocarburanti e in particolar modo quelli di seconda generazione, prodotti da materie prime non alimentari e con scarso impatto sull’utilizzo del fattore terra.
Ad oggi, però, il trade-off nell’allocazione dei terreni è un aspetto ancora importante se consideriamo che paesi come gli Stati Uniti stanno investendo soprattutto in biocarburanti derivati da grano. Ciò comporta, ovviamente, che a una domanda di grano per fini alimentari se ne sommi una per la produzione di biocarburanti e insieme provochino un aumento dei prezzi del feedstock, a sua volta seguito da un incremento, non sostanziale (7-14%), dei prezzi dei prodotti finali.
Quello che emerge dall’andamento dei prezzi dei feedstock cerealicoli negli ultimi sei anni, mette in luce di certo l’esistenza della legge della domanda e dell’offerta come regolatrice dei prezzi ma anche una componente aggiuntiva rappresentata dalla speculazione finanziaria. Dal 2003 al 2008 i prezzi delle commodieties agricole hanno presentato sempre un trend rialzista, non soltanto in anni di raccolti magri ma anche nel 2007, in cui si è avuto un raccolto record. Dopo i picchi raggiunti nel mese di giugno 2008, le prime avvisaglie della crisi che di lì a poco sarebbe scoppiata hanno provocato un’inversione di tendenza nelle quotazioni cerealicole sui principali listini internazionali, e nel primo quadrimestre di quest’anno i prezzi dei cerali hanno registrato una riduzione del 46%, tornado ai livelli del 2006, sebbene il consumo dei biocarburanti in questo periodo sia in crescita.
Questo, probabilmente, significa che a partire dal nuovo anno, quando l’economia mondiale inizierà a tirare un sospiro di sollievo e la domanda mondiale di energia ricomincerà a salire si ripresenterà lo scenario degli scorsi anni. Anche perché dati gli stretti legami tra il settore energetico e quello agricolo e i buoni rendimenti che hanno contraddistinto gli investimenti su queste commodities, gli speculatori non si lasceranno sfuggire una preda così ghiotta.
|