La Recensione. Un piano per salvare il pianeta di Nicholas Stern
Edizioni Feltrinelli, Londra 2009
«Global warming e fallimenti del mercato»: questo potrebbe essere un titolo alternativo per il libro che presentiamo oggi, e che costituisce in pratica il seguito del cosiddetto “Rapporto Stern” (2006). Come noto, l’ex chief economist della Banca mondiale fu incaricato, dall’allora ministro laburista del Tesoro Gordon Brown (oggi premier del Regno unito), di fornire una quantificazione economica dei cosiddetti “costi dell’inazione”, cioè di quale impatto economico su scala globale avrebbe avuto la mancanza di azioni concrete per intraprendere azioni di mitigazione del Gw.
L’economista produsse stime che evidenziavano come, per puntare a contenere la concentrazione di gas serra in atmosfera al di sotto dei 550 ppm CO2eq (attualmente sono circa 430 ppm in termini di CO2eq e circa 387 in termini di sola CO2), sarebbe stata necessaria la spesa di circa l’1% del Pil mondiale all’anno per i prossimi decenni. Un valore che era largamente superato dalle stime sui costi dell’inazione, che indicavano un valore dal 5 al 20% del Pil che sarebbe in futuro necessario investire (ogni anno) per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici.
O l’1% in meno oggi o dal 5 al 20% domani, quindi: questo messaggio è stato rilanciato da una parte all’altra del mondo, e insieme alle conclusioni derivanti dal successivo 4° rapporto Ipcc (2007) ha portato ad un’attivazione senza precedenti della comunità mondiale nei confronti del cambiamento climatico indotto dal surriscaldamento globale, e posto le basi sia per l’incontro di Bali di fine 2007, sia soprattutto per la conferenza di Copenhagen che, a dicembre 2009, dovrà decidere la road-map per il dopo-Kyoto.
E’ stato col rapporto Stern (e con i vari report Ipcc, in particolare con l’ultimo) che, possiamo dire, l’economia è stata obbligata ad aprire gli occhi davanti alla sempre maggiore inequivocabilità delle conclusioni della scienza: la serie di «5 relazioni fondamentali connesse con i cambiamenti climatici» descritte da Stern nel suo libro, e cioè quella tra attività economica ed emissioni, tra emissioni ed aumento di concentrazione dei gas serra in atmosfera, tra la concentrazione e l’aumento della temperatura, tra aumento T° e cambiamenti climatici (in primo luogo la mutazione del ciclo idrogeologico), e tra cambiamenti climatici e benessere, è stata resa evidente nei suoi aspetti estremi proprio dall’Ipcc da una parte (per quanto riguarda la relazione tra attività economica ed emissioni) e dal rapporto Stern dall’altra, che ha “chiuso il ciclo” evidenziando adeguatamente le relazioni sussistenti tra cambiamenti climatici e benessere, sia umano, sia del sistema economico.
In “Un piano per salvare il pianeta”, Stern aggiorna al ribasso gli obiettivi di concentrazione ottimale di ppm CO2eq, e di conseguenza aggiorna al rialzo le stime per gli impegni economici: l’obiettivo ora posto è di non superare i 500 ppm CO2eq, e questo comporterà una spesa stimata intorno al 2% del Pil su base annua, per un periodo di alcuni decenni. Il motivo del ribasso della concentrazione “accettabile” è dato dalle stime che l’autore considera più attendibili per la sensibilità climatica alle emissioni, cioè sulla reazione che, in termini di temperatura e quindi di fenomeni climatici indotti da essa, avrebbe il raggiungimento di valori-soglia: secondo il modello “business as usual”, è stimata la possibilità di giungere a fine secolo ad una concentrazione di 750 ppm CO2eq, con conseguente aumento di temperatura che sarebbe sicuramente superiore di 2-3°, ma che potrebbe all’82% essere di 4° e al 47% di 5° Celsius rispetto all’inizio dell’era industriale (per convenzione 1850). Considerando le variazioni che i sistemi fisici e biologici del pianeta stanno generalmente già subendo per un aumento di soli (circa) 0,8° dal 1850, si può capire come un aumento di temperatura di 2-3° potrebbe essere accettabile, ma oltre quel valore si entrerebbe in una zona molto pericolosa non solo per il benessere umano, ma per la stessa stabilità dei suoi sistemi sociali e produttivi. E si consideri anche l’incombere di alcuni elementi feed-back che potrebbero attivarsi – peggiorando di colpo le cose – già con aumenti limitati di temperatura, come la degenerazione in savana della foresta amazzonica (già oggi sotto forte pressione a causa dell’intensità dei prelievi e di tecniche selvicolturali non adeguate) o la liberazione di metano dal permafrost in via di scioglimento.
L’obiettivo posto da Stern è giungere ad una concentrazione (appunto, 500 ppm CO2eq) che, secondo i calcoli effettuati, dovrebbe permettere di abbattere il rischio di giungere a 5° a fine secolo ad una percentuale del 3% davanti al 47% della strategia “business as usual”, e che inoltre potrebbe anche limitare la crescita di T° a soli 2 gradi, poichè una crescita di 3° avrebbe una possibilità di verificarsi solo del 44%, valore che cresce al 69% per la concentrazione proposta nel precedente rapporto Stern, 550 ppm. Il lavoro da svolgere avrebbe un costo stimato, come detto, non più dell’1% annuo di Pil mondiale, ma del 2%.
In realtà – è lo stesso autore a sottolinearlo – il calcolo dei costi dell’inazione (cioè la stima di quel 5-20% di Pil annuale che andrà investito se non attuiamo serie misure di mitigazione) è da considerarsi solo un abbozzo, perchè «le stime dei costi complessivi di adattamento al clima sono ancora agli inizi» e «gli specifici risultati numerici frutto delle simulazioni condotte non devono essere presi con eccessiva rigidità: sono risultati che dipendono molto dalle assunzioni che vengono fatte e, per loro natura, trascurano aspetti cruciali come la possibilità di conflitti di varia natura e di differenti impostazioni etiche, oltre a risultare deboli nella valutazione del rischio e del valore della biodiversità».
Infatti sia il rapporto Stern, sia “Un piano per salvare il pianeta”, sono più che altro da considerarsi delle analisi relative alla direzione da prendere, e all’evidenziazione di quali scelte siano da percorrersi non solo relativamente al tema del cambiamento climatico, ma in generale al tema della cooperazione per lo sviluppo e, alzando ancora più il tiro, all’affermazione di un nuovo paradigma economico e produttivo, oltre che sociale. «Siamo di fronte» – sostiene infatti l’autore - «ad una scelta tra due strategie, una delle quali, affrontando nei prossimi decenni costi significativi, può aprirci la strada verso un futuro di crescita continuativa e riduzione della povertà nel quadro di un mondo più pulito, più sicuro e più ricco di biodiversità. L’altra prevede invece di continuare a gestire l’economia come nel passato e quindi ci porterà probabilmente verso un rallentamento e un arresto della crescita economica in un quadro di sconvolgimenti e perdite».
In realtà, secondo lo studioso inglese, il Gw è solo la manifestazione più ampia di un generale «fallimento del mercato», a cui va posto rimedio per la creazione di un «sistema di mercato più efficiente». Il fallimento del mercato è consistito, nel parere di Stern, principalmente nella distorsione dei prezzi rispetto ai costi reali (dovuta, in sostanza, all’assenza di un “prezzo al carbonio”), ma anche nell’impossibilità di raggiungere un’informazione completa, nel radicamento di abusi di potere contrattuale (pensiamo ai monopoli o ai cartelli), e soprattutto nelle esternalità. Esse sono rappresentate in primo luogo proprio dalle emissioni climalteranti, che secondo l’autore sono tendenzialmente più pericolose di tutte le altre perchè agiscono su scala globale, sul lungo periodo, su vasta scala, e soprattutto perchè presentano un forte grado di incertezza sulle possibili evoluzioni della situazione.
Nella concezione di da Stern, sono proprio le “incertezze” che ancora rivestiamo sul clima ad essere state trattate (spesso artatamente) da molti economisti influenti e da molti decisori politici in maniera sbagliata: invece di trincerarsi dietro l’incertezza, è necessario agire secondo le stime del rischio, ponendo un “rischio accettabile” che possiamo correre e uno che è invece da evitare ad ogni costo. Ed è chiaro che, se l’applicazione di misure contro un rischio accettabile può essere sottoposta ad un’analisi costi-benefici di natura puramente contabile, la prospettiva di un “rischio inaccettabile” deve essere evitata ad ogni costo, e questo obiettivo prevale sugli altri e impone l’adozione di correttivi extra-contabili.
Peraltro, i calcoli sul costo dell’intervento (nettamente più complessi ed attendibili rispetto a quelli sui costi dell’inazione) evidenziano che agire in direzione della mitigazione del Gw potrebbe anche tramutarsi, al 2030, in una “perdita negativa”, cioè in un guadagno. Questo perchè una riduzione di circa 30 Gt CO2eq/anno, stimata come necessaria per contenere la concentrazione a 500 ppm al 2030, comporta un bilancio pressoché pari tra le spese e i ricavi: per esempio, mentre interventi per risanamento delle foreste degradate o per lo sviluppo dell’energia solare avrebbero un costo, altri (come ad esempio la sostituzione delle lampadine a incandescenza con altre a basso consumo o a led) porterebbero ad un guadagno, alla fine dei conti. Ed ecco che il valore di riduzione di 30 Gt/anno avrebbe un bilancio contabile pari a zero, mentre si avrebbero vantaggi economici netti puntando ad una riduzione minore (per arrivare a 550 ppm servirebbe una riduzione di 20 Gt/anno al 2030), mentre al di sopra della soglia delle 30 Gt/anno i costi comincerebbero ad essere positivi.
Sono valutazioni, quelle presentate ora, ancora sperimentali, ma basate su solidi studi messi a disposizione da agenzie come McKinsey. Va considerato, comunque, che la ricetta energetica ritenuta più adatta da Stern (e su cui sono modulate le stime di costo) è alquanto diversa da quella odierna: secondo l’autore, infatti, sono da considerarsi parte attiva della lotta al Gw anche l’energia nucleare (sia la fissione, sia la futura tecnologia per la fusione) e il meccanismo di Carbon capture e storage (Ccs, il cosiddetto “carbone pulito”), entrambe strategie che destano notevoli perplessità all’interno del dibattito e nella letteratura dello sviluppo.
Le due strategie energetiche vengono trattate in maniera diversa: il nucleare è visto da Stern, in pratica, come una normale fonte energetica tra le tante necessarie, e va detto che il modo che ha di affrontarlo appare sbrigativo poichè, pur sottolineandone le criticità, l’autore sostiene solo che «bisogna prima risolvere il problema delle scorie e garantire la sicurezza sul lato della proliferazione degli armamenti», ma poi il problema-nucleare sarà risolto. Nemmeno viene accennato il fatto che di paesi che hanno “risolto il problema delle scorie” non ne esiste nemmeno uno, e desta anche perplessità la valutazione per cui «le forniture di uranio e plutonio possono provenire da diverse aree del mondo, molte delle quali sembrano politicamente stabili», affermazione che può valere per il Canada e l’Australia (primi produttori al mondo), ma non certo per altri paesi produttori come il Niger, la Russia, l’Ucraina, il Kazakistan, la stessa Cina.
Più convincente è invece la posizione di Stern sul ccs: essendo la sua ricetta connessa (e sua causa, per certi versi) all’instaurazione di un meccanismo mondiale di mercato per le emissioni o comunque all’attribuzione di un prezzo al carbonio (per esempio anche attraverso la leva fiscale), l’economista inglese ritiene che lo sviluppo della ricerca sul ccs sia necessario al fine di imporre, in futuro, l’adozione di tecniche di cattura e stoccaggio per tutte le fonti che utilizzino carbonio per la combustione, compreso il gas: ed ecco che, se il ccs fosse reso obbligatorio, allora il prezzo del carbone e del gas diventerebbero meno competitivi di quanto siano oggi rispetto alle fonti rinnovabili.
Il ragionamento è chiaro, e fila alla perfezione: essendo (e rimanendo in futuro) necessaria la disponibilità di fonti abbondanti per la sicurezza negli approvvigionamenti, queste fonti potrebbero essere individuate proprio nel carbone, col risultato anche di una maggiore capacità di coinvolgere paesi come la Cina in accordi globali: ma il prezzo del carbone, ricalcolato tramite l’introduzione obbligatoria del ccs, tenderebbe a diventare meno competitivo, e questo favorirebbe l’orientamento spontaneo del mercato verso le fonti rinnovabili o comunque a bassa intensità di carbonio.
A questo proposito, Stern propone la messa in opera di 30 centrali con ccs per verificarne funzionamento e costi, per poi adottare la strategia su larga scala se conveniente. Una ricetta che, pur non vanificando le forti perplessità che sussistono riguardo al carbone pulito (in primis per l’imprevedibilità delle conseguenze geologiche, idriche e sui sistemi biologici, ma anche sulla sua effettiva efficacia), apre effettivamente un ambito di riflessione sul ccs finora inesplorato. Molto interessante, a questo proposito, la proposta di avanzare la ricerca sul cosiddetto “ccs da biomasse” o sul “biochar” (l’utilizzo di carbone da biomasse pirolizzate per fertilizzare il suolo), entrambi strumenti che, se adottati, permetterebbero di giungere ad un risultato finale di emissioni negative, cioè di sottrazione netta del carbonio dall’atmosfera. Interessante anche la prospettiva per lo sviluppo di CO2 solidificata come materiale da costruzione o per pavimentazioni stradali.
La sottrazione del carbonio dall’atmosfera è obiettivo che comunque Stern pone nel lungo termine, per quanto riguarda il bilancio del pianeta nella sua globalità: una volta stabilizzati intorno a 500 ppm, l’obiettivo dovrà diventare quello di scendere sotto quella soglia. In qualche modo, così, si possono identificare i molti elementi comuni tra la ricetta che Stern propone per il clima e quella che più in generale vede come adatta ai sistemi umani nella loro globalità: da buon economista, Stern chiarisce che il suo obiettivo non è l’arresto della crescita e la chiusura dei mercati a favore di un neo-statalismo, ma la correzione dei mercati stessi in direzione di un recupero della loro efficienza, oggi perduta a causa della non volontà di riconoscere le insite imperfezioni in esso contenute. Stern punta al rilancio della crescita, oggi soffocata dalla crisi finanziaria e da quella climatica (entrambe accomunate dalla causa: una insufficiente analisi dei rischi), e nell’instaurazione di un meccanismo che ne permetta la perennità, almeno finché quella che chiama “la sfida dello sviluppo” non sarà vinta. In questo senso l’autore incita a vedere il problema del cambiamento climatico e del sottosviluppo/povertà come indissolubilmente legati, e in questo modo egli (che ha una lunga esperienza nella cooperazione per lo sviluppo, soprattutto coi paesi africani e asiatici) si pone come principale teorico dell’evoluzione della cooperazione da una concezione “classica” ad una che veda l’adattamento al cambiamento climatico come principale forma di sviluppo. Ma vale anche la relazione contraria: è proprio lo sviluppo a «costituire la principale forma di adattamento», ed è tramite questo concetto che Stern ammonisce sull’inutilità di considerare la crescita economica (che non causa automaticamente ”sviluppo”, ma che specialmente in paesi poveri ne è principale veicolo) come fattore marginale davanti all’emergenza climatica.
Serve crescita, quindi, e Stern spiega la sua ricetta sul come garantirla il più a lungo possibile, pur agendo sul clima. La prospettiva di lungo termine, però, è naturalmente diversa: essendo una crescita infinita insostenibile per definizione, è ovvio che ad un certo punto l’economia globale dovrà raggiungere un punto di “stazionarietà” (cosa diversa da “stagnazione”, naturalmente), e a questa stazionarietà della produzione corrisponde, in un certo senso, quella stazionarietà della concentrazione di gas serra (a 500 ppm) che Stern pone come obiettivo. Ma, finché non saranno appianate le divergenze nello sviluppo, è da ritenersi assurdo cercare di impedire la crescita dei paesi in via di sviluppo, cosa che peraltro aumenterebbe la loro ostilità nei confronti dei paesi ricchi e della loro incommensurabilmente maggiore responsabilità sui cambiamenti climatici.
In sintesi, l’autore propone un accordo “efficace, efficiente ed equo” sul percorso verso una economia carbon-free o a comunque a bassa intensità di carbonio:
- una riduzione del 50% al 2050 su scala globale delle emissioni, che vedrebbe naturalmente un contributo maggiore da parte dei paesi ricchi (80% in meno alla stessa data).
- azioni contro la deforestazione (responsabile, a causa di cambiamenti dell’uso del suolo tramite tagli o tramite lo slash and burn, di circa il 20% del totale delle emissioni) al costo di 15 miliardi di $ l’anno.
- instaurazione di un meccanismo globale di mercato delle emissioni, che costituisca una applicazione su larga scala del già esistente European union emission trading scheme, che già oggi «copre il 40% delle emissioni europee» e che avrebbe il vantaggio, rispetto ad altri strumenti di attribuzione di un costo al carbonio (come la leva fiscale, che Stern ritiene meno adatta ma comunque da associare, in certi casi, al cap and trade), di attrarre più facilmente i pvs negli accordi poiché attiverebbe un flusso di fondi dai paesi ricchi verso di essi. A questo meccanismo dovrebbe sommarsi una evoluzione della cooperazione per lo sviluppo e del meccanismo di Clean development mechanism.
- sviluppo delle nuove tecnologie: ricerca sulla fusione nucleare, ccs, ma anche investimenti in Ricerca & sviluppo, in reti telematiche (per migliorare il sistema di rilevamento, quello di allarme, e per dematerializzare il più possibile il sistema produttivo), in tecnologie oggi nascenti come i già citati Biochar e il ccs per le biomasse, ma anche i biocarburanti di seconda generazione (che possono crescere su terreni degradati e con poca acqua, evitando così la competizione con l’alimementare) e nuovi strumenti di immagazzinamento dell’energia, compreso l’idrogeno e le cosiddette “nanobatterie”.
- sviluppo delle modalità e delle tecnologie di adattamento, soprattutto nei pvs: a questo proposito, Stern sollecita con forza il mantenimento delle promesse fatte dai paesi ricchi nel 2005 per far crescere il proprio contributo ai fondi per il sottosviluppo dall’attuale 0,3% medio del Pil allo 0,7% almeno. Di contro, l’elergizione dei fondi dovrebbe diventare meno “a pioggia” e assumere un carattere di maggiore vincolo per l’adozione di politiche per l’adattamento.
In chiusura, è da notarsi come, pensando di leggere un aggiornamento del rapporto Stern, ci siamo in realtà imbattuti in una interessante e accattivante descrizione di come autore vede l’evoluzione verso una nuova economia. Non è una novità l’aspetto metodologico dell’analisi, proprio quello che ha portato il Rapporto del 2006 sotto i riflettori dell’opinione pubblica: Stern ragiona da economista, ed è tramite valutazioni economiche (sia pure affiancate da considerazioni di carattere ecologico, ma anche morale) che giunge alla conclusione dell’assurdità rappresentata dal non-agire. E’ particolarmente indicativo, a questo proposito, il fatto che la concentrazione da lui indicata come obiettivo, 500 ppm CO2eq, rappresenti non solo un obiettivo di sostenibilità ambientale, ma anche e soprattutto quello di una sostenibilità economica dell’azione contro il Gw poiché, come detto, una riduzione di 30 Gt/anno avrebbe un bilancio contabile praticamente nullo.
“Un piano per salvare il pianeta” rappresenta in un certo senso la Bibbia dell’economia politica applicata ai cambiamenti climatici e alla sfida alla povertà, e sicuramente sarà tra i documenti centrali della prossima riunione di Copenhagen. Vanno comunque segnalati anche gli elementi che a nostro parere rappresentano delle criticità: anzitutto, come già detto, appare sbrigativa la trattazione che Stern fa del nucleare, tecnologia a cui egli è (legittimamente) favorevole, ma che non affronta con la dovuta attenzione in relazione al generale tema della sostenibilità. più motivata, anche se non in grado di allontanare tutti i dubbi al riguardo, la posizione sul carbone pulito. Altro elemento su cui il ragionamento può incepparsi è la stima della sensibilità climatica: l’autore, infatti, basa la sua considerazione (riguardo alla necessità di agire) sulle percentuali di avere una certa temperatura che conseguirebbero ad una certa concentrazione di gas serra in atmosfera: ma quello della sensibilità climatica è proprio uno degli elementi più dibattuti nell’ambito della comunità scientifica, e quindi dire che con una concentrazione x si avrebbero y probabilità di avere una data temperatura appare scientificamente azzardato. Ciò va detto, anche se non costituisce minimamente una scalfittura del principio di precauzione che è alla base delle attuali scelte politiche sul clima.
C’è un ultimo appunto, e riguarda la traduzione del titolo, che in origine recitava “A blueprint for a safer planet” (un piano per un pianeta più sicuro), mentre in Italiano è stato reso come “Un piano per salvare il pianeta”. E questa traduzione appare un messaggio fuorviante, e porta allo stesso errore di comprensione che per tanti anni e per tante persone ha portato a considerare la battaglia per il clima come uno sforzo di buona volontà, e non come un’azione necessaria in primo luogo dal punto di vista del bilancio economico. Qui si tratta di salvare l’uomo e il suo sistema produttivo, grazie al perseguimento, appunto, di un pianeta energeticamente (e quindi socialmente, e quindi economicamente) “più sicuro”, non certo di salvare un pianeta che di un cambiamento climatico sulla sua superficie manco se ne accorge.
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