Parliamo con i Talebani, con il Nemico, con i Terroristi? Ammetto di
non essere il più indicato a rispondere a queste domande. Ho imparato
ad onorare i padri della patria che, per i regimi politici del loro
tempo, erano terroristi e ribelli. Da militare, ho dovuto salutare e
presentare le armi a vari personaggi compresi quelli che in
periodi della loro vita erano stati fuorilegge o terroristi. Da
comandante di operazione internazionale nei Balcani ho dovuto stringere
mani che grondavano ancora sangue e dialogare con responsabili di
crimini che il mutato clima politico considerava eroi. Oggi non
abbiamo, come nel passato, neppure una definizione condivisa di
terrorismo e mai come in questo periodo è difficile separare il
terrorismo come strumento dal terrorismo come ideologia, il terrorismo
dalla lotta di liberazione, i ribelli dai criminali e gli insorti dai
terroristi. Inoltre, ogni militare sa che conoscere il nemico è
fondamentale per il successo delle operazioni e che non esiste mezzo
migliore della conoscenza personale per capire gli avversari. Quando il
rapporto diretto non è possibile, come spesso succede nei conflitti, si
chiede all’intelligence di fare da intermediario, di fornire
informazioni dettagliate e di tracciare i profili professionali e
personali degli avversari. Se è raro e difficile incontrare i propri
nemici prima della battaglia per parlare di guerra, è invece naturale
per un militare pensare e perfino sperare d’incontrare l’avversario
durante il conflitto per discutere di tregua o al termine dei
combattimenti per discutere di pace.
Oggi, come ieri, è evidente che il nemico in Afghanistan è
rappresentato dai talebani, o da quelli che noi stessi occidentali
vogliamo dipingere come talebani. Non sappiamo se sono gli stessi con i
quali mezzo mondo ha trattato prima dell’11 settembre; quelli che
mentre abbattevano con furia iconoclasta le grandi statue dei budda,
mentre imponevano feroci restrizioni alle donne, ai bambini e agli
oppositori politici venivano corteggiati dalle diplomazie e dalle
intelligence di mezzo mondo comprese quelle statunitensi. Non sappiamo
se sono gli stessi con i quali si è trattato per mesi dopo l’11
settembre prima che gli Stati Uniti iniziassero la guerra globale
contro il terrore. Non sappiamo se sono gli stessi ai quali vengono
elargiti milioni di dollari in presunte taglie perchè denuncino il
vicino di casa o soltanto il nemico di faida. Non sappiamo neppure se
quelli stessi rinchiusi a Guantanamo sono i veri talebani e finchè non
ci saranno processi aperti e seri non lo sapremo mai. Non sappiamo chi
sono questi "talebani" del 2007, cosa vogliono e fino a che punto
possono sperare di assumere il controllo dell’Afghanistan. Non sappiamo
se sono collegati con Al Qaeda, come sono collegati con il Pakistan,
l’Arabia Saudita, l’Iran e la ribellione irachena. Non sappiamo dove
prendono i finanziamenti e le armi. "Non sappiamo", ed è questo il vero
problema. Oppure ciò che sappiamo è insufficiente e deviante perché
superficiale e perfino banale.
Sappiamo che tra le centinaia di bande
private, di criminali comuni, di milizie della droga, di polizie più o
meno ufficiali e di mercenari che combattono indifferentemente l’uno
contro l’altro o ciascuno contro gli occupanti di turno ci sono anche
gruppi di fanatici islamici, agguerriti e "giovani", che
semplicisticamente chiamiamo "talebani". Non è molto, perché essere
fanatici non è una prerogativa degli islamici e nemmeno dei talebani.
Essere agguerriti non è una novità per i popoli dell’Afghanistan che
hanno sempre dovuto lottare contro le invasioni ed essere "giovani" in
quella terra è una condanna piuttosto che una benedizione:
l’aspettativa di vita in Afghanistan è di 43 anni. Se non si combatte
tra i 15 e i 35 anni vuol dire che si è già morti. E ogni "vecchio" dai
43 anni in su che sopravvive fa statisticamente abbassare l’età di
quelli che muoiono. Questo si sa, e non è molto per fare la guerra in
Afghanistan ed è addirittura niente per fare la pace. Per questo, in
termini prettamente tecnico-militari, la domanda sull’opportunità di
incontrare i talebani, i ribelli, gli avversari o gli stessi terroristi
mi sembra un falso problema un po’ strumentale e un po’ ipocrita. Da
militare, non solo dovrei incontrarli, ma li dovrei conoscere
perfettamente, dovrei avere qualcuno dei miei infiltrato nelle loro
file, dovrei conoscere vizi e virtù di tutti i capi e dovrei avere ben
chiaro il loro modo di pensare e di agire. Dovrei avere patti segreti
con loro, come li avevano gli inglesi del "Grande gioco" (e mi
meraviglierei se non li avessero ora), come li avevano i sovietici con
il ribelle Massoud, e come li avevano gli americani con i mujaheddin
prima e con i signori della guerra e della droga poi (e mi
meraviglierei se non li avessero ora).
Sempre nell’ottica di chi
ammette di avere un avversaro da comprendere prima ancora che da
combattere e da piegare mi sembra surreale anche l’obiezione che il
dialogo sia una legittimazione dell’avversario.
La legittimazione fra
avversari avviene nel momento in cui si combattono e non nel momento in
cui si parlano. Il ruolo di avversario non comporta nessuna
accettazione diretta o indiretta dei rispettivi scopi e metodi . Anzi
proprio nel riconoscimento delle reciproche posizioni sta sia la
possibilità di trovare un punto di accordo sia la definitiva
chiarificazione del disaccordo.
Ma, come dicevo, ammetto che l’ottica militare, che implica sempre
l’individuazione, la conoscenza e il rispetto dell’avversario, può non
essere la più idonea ad interpretare le sensibilità politiche. E’
impossibile per un militare combattere contro i fantasmi ed è insensato
materializzare gli avversari con semplici etichette, attribuendo ad
essi volontà, capacità e vulnerabilità oniriche o ipotetiche. Ma forse
la politica vuole proprio questo e allora ai tavoli della cosiddetta
"pace" non è necessario chiamare la realtà, ma è sufficiente
l’immaginazione, la fantasia, la creatività. Tuttavia la fantasia
di chi vuole dialogare con i Talebani deve spingersi oltre la semplice
ipotesi di realizzare un’agape fraterna. E’ sicuro che essi vogliano
sedersi ad un tavolo di pace? E quelli che aderissero quale
rappresentatività avrebbero? Quali garanzie offrirebbero? Quale regime
appoggerebbero e quali prerogative vorrebbero? E quali delle
controparti sarebbero disposte ad ascoltarli? A condividerne le
opinioni e ad accettarne i ragionamenti? Sedere ad un tavolo con i
Talebani o con chiunque si opponga oggi all’occupazione straniera e al
governo di Karzai senza essere pronti ad accettare alcune delle loro
motivazioni può essere devastante. D’altro canto la fantasia di chi non
vuole dialogare con i Talebani o con nessuno dei cosiddetti terroristi
deve porsi domande analoghe. Chi è il vero detentore della violenza?
Chi potrebbe controllarla? Karzai ha sufficiente potere per
stabilizzare il paese? L’opzione esclusivamente militare ha prospettive
di successo a medio e lungo termine? O si deve programmare lo sterminio
di undici milioni di afgani (la popolazione in grado di combattere) per
avere venticinque anni di stabilità? E’ evidente che una soluzione può
essere soltanto di compromesso e quasi di azzardo. Occorre da un lato
ragionare con freddezza e pragmatismo e dall’altro tentare la sorte. Il
pragmatismo dovrebbe indurre a chiedere agli stessi afgani e a Karzai
chi invitare ad un eventuale tavolo negoziale. L’azzardo dovrebbe
indurre a dare credito anche a chi oggi si presenta come "intrattabile"
a cominciare dai signori della droga.
Di certo bisogna uscire dall’ambiguità e rinunciare alla sottile
ipocrisia che caratterizza le polemiche su questo argomento: si rifiuta
"a priori e a prescindere" di conoscere, incontrare e capire in un
quadro di legalità qualcuno con il quale si è poi disposti a trattare
in condizioni di ricatto. Si raggiunge il paradosso che,
chiudendo i canali di conoscenza e comunicazione già prima dello
scontro o dell’atto terroristico, si lasciano aperti soltanto quelli
del ricatto e si tratta concedendo esplicito riconoscimento giuridico
proprio nel momento in cui la nefandezza degli atti ostili dovrebbe
suggerire la chiusura totale. In questi frangenti non è importante
l’oggetto del compromesso o l’ammontare del compenso. Non importa che
sia soltanto denaro (che viene poi usato per alimentare altre
nefandezze e lotte politiche) o che sia scambio di prigionieri. Diventa
essenziale chi tratta e come. Diventa fondamentale individuare la
soglia della capitolazione: il limite oltre il quale si è disposti a
cedere tutto, persino la dignità.
L’Italia di questi ultimi anni ha
adottato una linea politica schizofrenica: si è affiancata con grande
lealtà, disinteresse e generosità agli alleati nelle guerre ma si è
accontentata di conoscere dell’avversario soltanto ciò che faceva loro
comodo. Si è poi allontanata dalla loro linea nel momento in cui veniva
sottoposta a pressioni e ricatti. La politica interna e gli equilibri
fra i poli e le molteplici anime che compongono ciascuno di essi hanno
determinato la scelta del coinvolgimento diretto e immediato delle
massime istituzioni di governo nei compromessi e la scelta di una
soglia della capitolazione estremamente bassa. In contrasto con
l’apparente motivazione umanitaria di voler salvare vite umane – che
avrebbe dovuto ispirare una strategia di contatto con i ricattatori e i
terroristi affidato alle sole organizzazioni umanitarie- si è
istituzionalizzato il compromesso coinvolgendo in maniera plateale sia
i massimi organi di governo sia le istituzioni più sensibili e
riservate.
La soglia della capitolazione è stata abbassata a limiti
impensabili sia nei tempi sia nelle modalità sia nella quantità e
qualità del prezzo del riscatto. La stessa spettacolarizzazione è
diventata una parte del prezzo da pagare dando così incredibile e
inaspettata visibilità agli stessi terroristi. Sono stati mobilitati i
vertici dei servizi per azioni che avrebbero richiesto un semplice
intermediario affidabile e discreto. Alti funzionari dello Stato sono
stati trasformati in spalloni frontalieri per consegnare nelle mani e
nei conti numerati di non si sa chi del denaro proveniente da conti
pubblici o da quelli di non si sa chi. Sono state seguite procedure e
modalità in contrasto con la semplice logica della sicurezza, ma
soprattutto in contrasto con le norme imposte dagli stessi alleati,
facendo correre rischi tanto alti quanto ingiustificati. E’ questa
combinazione d’innalzamento del livello di coinvolgimento istituzionale
e abbassamento della soglia di capitolazione ad averci fatto perdere la
credibilità politica internazionale che avevamo guadagnato anche con le
nostre missioni militari.
Ma c’è un altro elemento di schizofrenia:
alla capitolazione totale sul fronte della sorte dei civili e dei
giornalisti (che nessuno ha obbligato a mettersi nei guai) hanno
fatto riscontro una fermezza ed una freddezza inconsuete per le sorti e
i rischi delle forze militari inviate per motivi istituzionali. Non ci
si è fatto alcuno scrupolo di mandarle in condizioni inadeguate ai
compiti e in situazioni di rischio sottovalutato. E quando abbiamo
subito perdite militari il cordoglio è stato composto anche da parte
della popolazione che proprio in quei momenti ha dimostrato una
eccezionale maturità non facendosi trascinare nè dalla pubblicità nè
dalle pulsioni dello spettacolo. Alla maturità ha anche corrisposto,
purtroppo, l’indifferenza. Una vita civile sembra che valga più di una
militare. Oggi abbiamo ancora Caduti che aspettano un riconoscimento
ufficiale, abbiamo responsabilità ancora da accertare e, per azioni nei
teatri di guerra, abbiamo più militari sotto processo che terroristi.
Abbiamo soldati che guardano a queste vicende degli ostaggi, dei
ricatti e dei riscatti con grande partecipazione umana e immenso
scetticismo politico. E continuiamo ad avere dibattiti sulle missioni
falsati da faide interne o da agende personali. Sono pochi a sollevare
le vere questioni e ad individuare i veri rischi che militari e civili
corrono nei teatri operativi e le conseguenze delle politiche
schizofreniche.
Contrariamente a quanto affermato da molti e
blasonati osservatori, non è vero che la capitolazione nel ricatto
riguardante giornalisti o civili ha innalzato i rischi per le forze
militari. Fino a quando la vita dei militari non avrà considerazione,
ma solo rassegnazione, e quella dei civili varrà milioni di dollari e
scambi pregiati saranno questi ultimi ad essere gli obiettivi
"remunerativi". Oggi in Afghanistan, a causa dello spettacolo offerto
dalla nostra capitolazione, dalla disunione e dal protagonismo, abbiamo
creato le basi per una ulteriore perdita di credibilità internazionale
ed abbiamo innalzato i costi politici della missione e i rischi
personali dei civili. Abbiamo contratto debiti con il presidente
Karzai, ma ci siamo alienati molti settori del suo governo, quasi non
ci fossimo ancora accorti che il presidente ha difficoltà nel controllo
del suo stesso gabinetto. Ci siamo alienati una parte del dipartimento
di stato americano e buoni settori degli alleati, fingendo di
sorprenderci delle reazioni che avremmo dovuto considerare scontate ed
essere pronti a controbattere.
Ma un danno lo hanno subito anche
Emergency e Gino Strada che nelle ultime due vicende hanno speso molti
dei crediti accumulati in anni di servizio umanitario. Oggi rischiano
più di ieri e la capitolazione politica di cui si sono fatti
intermediari potrebbe contribuire a delegittimarli nei confronti del governo
afgano attuale e degli stessi
talebani, che potrebbero considerarli non più utili o
addirittura "spendibili".
Il rischio per i nostri militari non è più
elevato di quello di ieri. Si era già alzato da tempo: da quando il
nostro paese ha rinunciato a far sentire la propria voce in seno alle
coalizioni e alle alleanze, da quando ha preannunciato ritiri
unilaterali, da quando le nostre forze in Iraq e in Afghanistan sono
state sottoalimentate e dimenticate, da quando non sono apparse più in
sintonia con gli alleati, da quando hanno adottato procedimenti diversi
e soprattutto da quando hanno rinunciato a conoscere e capire il
proprio "nemico".