c Rumiz: dalla montagna, l’economia verde del futuro - 23/09/2009 (Rassegna Stampa - Ass. Progetto Gaia)
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[Data: 23/09/2009]
[Categorie: Ecologia ]
[Fonte: libreidee.org]
[Autore: Paolo Rumiz]
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Rumiz: dalla montagna, l’economia verde del futuro

Il mito americano della “natura incontaminata” è il rovescio della stessa medaglia, velenosa, che ha inquinato il pianeta con l’industria: spopolatesi le valli alpine, l’invasione verde della foresta incolta ora minaccia i versanti. Eppure, sotto i colpi della crisi energetica che avanza, «il futuro dell’economia italiana è tutto lì: nel ripristino di una cultura “verticale” capace di garantire l’equilibrio idrogeologico con lo sfalcio, l’energia col legnatico, il reddito grazie alla carne e alla lana, l’ecologia attraverso lo smaltimento sul posto del letame». Lo scrive Paolo Rumiz nel reportage “La grande ombra verde”, il 20 settembre su “Repubblica”. L’analisi parte da una constatazione: l’incremento forestale, unico in Europa, che ha interessato i rilievi italiani negli ultimi decenni, dalle Alpi agli Appennini, non è una buona notizia. «L’Italia - scrive Rumiz - non sente e non vede l’inselvatichimento che scatena incendi, spinge in città lupi e cinghiali, minaccia gli argini a ogni pioggia d’autunno». Quello che non si vuol capire, sostiene Giorgio Conti, dell’università veneziana Ca’ Foscari, è che l’uomo è un eco-fattore capace di arricchire il suo habitat secondo natura e in modo originale». Il cipresso, icona della Toscana, è stato importato dall’Iran. Il vino dei francesi proviene dai Romani, il mais non è padano ma arriva dal Messico, la melanzana dai paesi arabi, il pomodoro dal Perù. «Alpi e Appennini - aggiunge Conti - sono il contrario della natura primigenia. La chiave del paesaggio sono le radure e i terrazzamenti, e questi sono il risultato di un compromesso millenairo fra uomo e ambiente. Ora questo si sta perdendo». Gli ultimi “paradisi”, osserva Rumiz, «sono l’antitesi della cosiddetta “cattedrale naturale”, concetto di per sé aberrante». Le praterie del Grappa? «Meraviglie artificiali». Le distese di Asiago, dove le mucche pascolano tra le orchidee selvatiche? «Frutto di una guerra senza quartiere contro la sterpaglia». Gli abeti del Cadore, alti 60 metri? «Risultato di una selezione vecchia come la Repubblica di Venezia». Per non parlare delle radure superstiti di Cortina d’Ampezzo, salvate dagli “usi civici” dove a intervenire è la comunità rurale alpina «con diritti di sfalcio e legnatico, ultima trincea contro l’urbanizzazione diffusa», l’altro killer dell’ambiente alpino, minacciato dal cemento nelle aree sacrificate al turismo di massa. Ma la maggiore emergenza, oggi, è forse proprio quella rappresentata dall’invasione della boscaglia incolta, come segnala l’Inventario nazionale delle foreste, che già nel 2005 rilevava quasi due milioni di ettari di superficie boschiva in più rispetto a vent’anni prima. «E così la Liguria frana e brucia perché la giungla ha invaso i terrazzamenti secolari costruiti dall’uomo, l’Appennino tosco-emiliano è diventato terra di cinghiali e nel Friuli Venezia Giulia la boscaglia trionfa, al punto che le vecchie malghe sono crollate sotto l’urto di piante spaccasassi che fanno l’effetto di bombe di mortaio». «O blocchiamo la foresta o saremo distrutti», disse anni fa un montanaro dell’alpitiano bellunese dell’Alpago, Sandro Frullin, che ha eretto chilometri di recinzioni per proteggere la reintroduzione dell’agnello locale, l’alpagoto, reimportato dalla Croazia. Pascoli recintati, «quasi una linea Maginot contro l’invasore». Al punto che «oggi la valle non ha più paura, la frana verde si è fermata, le acque cominciano a rientrare a regime». L’area, rivela Rumiz, è diventata un presidio Slow Food per l’allevamento dell’agnello di Alpago. «Frullin e i suoi sgobbano 15 ore al giorno, ma hanno vinto la battaglia. E hanno brevettato un sistema che può essere applicato ovunque in Europa», dai Carpazi ai Pirenei. Ecologia, economia e sicurezza: «Contro gli incendi - aggiunge il professor Conti - i pastori sono meglio dei Canadair». Dopo l’uomo degli agnelli, Rumiz presenta un altro “angelo custode” della montagna, Sergio De Infanti, guida alpina e albergatore di Ravascletto, in Carnia, che parla del suo “patto” con gli abeti: «Loro hanno bisogno di me e io ho bisogno di loro». Allude alla sua caldaia d’albergo, tutta a legna, che gli fa risparmiare 17.000 euro di gasolio all’anno. «La montagna è ricchezza, gli italiani l’hanno dimenticato per andare a vivere di stenti in città». E’ così che un bosco, coltivato in modo armonico, diventa «un altro mondo, fatto di bellezza e biodiversità». «Alla radice di tutto - osserva Rumiz - l’economia intensiva, che ha ucciso il rapporto di interdipendenza fra montagna e pianura». Esempi? «Le vacche da parmigiano non vanno più a pascolare nelle malghe appenniniche, i prosciuttifici di San Daniele non si servono più della scrofa nera che pascolava lungo la pedemontana friulana, le mandrie bergamasche d’estate non vanno più in quota e i pastori d’Abruzzo non hanno più tratturi liberi per pascolare». Eppure, insiste Rumiz, una fetta importante di futuro potrebbe essere proprio qui, nel ritorno intelligente all’economia alpina. In Germania, un sito web (www.landschaftswandel.com) mostra con simulazioni quale sarà l’avanzata della foresta: «Una pestilenza, in termini percentuali, ancora più grave della cementificazione». In Austria si corre ai ripari, con una legge che premia chi vive in quota: aiuti tanto più consistenti quanto maggiore è l’altitudine. «Forse anche noi ne avremmo bisogno», conclude Rumiz. Dovremmo imitare l’Austria, «anziché limitarci a versare ampolle nel fiume più inquinato del mondo».

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