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Le implicazioni psicologiche dei maltrattamenti dei bambini e degli adolescenti nei confronti degli animali

Nel settecento il pittore William Hogart aveva già intuito l’esistenza di una relazione tra crudeltà verso gli animali nell’infanzia e nell’adolescenza e crudeltà verso le persone nell’età adulta. In una serie di incisioni dal titolo “Le quattro fasi della crudeltà”, Hogan narra la storia di Tom Nero. Nella prima incisione si vede Tom Nero adolescente, mentre conficca una freccia nel retto di un cane, incurante delle suppliche di un altro ragazzo che gli offre un dolce per dissuaderlo dal compiere questa crudeltà. Nella seconda incisione si vede il protagonista, che è ormai divenuto un giovanotto, battere con un bastone un vecchio cavallo caduto a terra e accasciato per la fatica prodotta dall’eccessivo peso della carrozza che sta trainando. Nella terza incisione Tom Nero, ormai adulto, viene arrestato per avere ucciso una giovane donna.

La ricerca psicologica ha dimostrato, da circa trent’anni, la connessione che esiste spesso nei bambini e negli adolescenti tra comportamenti violenti nei riguardi degli animali, da una parte, e vari tipi di disturbi psicologici, e in particolare comportamenti aggressivi nei riguardi delle persone dall’altra. Studi ulteriori hanno ripreso e approfondito questo argomento. In particolar modo, oggi si sa che i comportamenti crudeli di un bambino o di un adolescente possono essere non solo il sintomo di una situazione esistenziale patogena in atto, per esempio, di una situazione familiare ed ambientale particolarmente problematica, caratterizzata a seconda dei casi, da violenza fisica, psicologica, abuso sessuale, o da tutte queste forme di violenza insieme, ma anche un segnale premonitore, un indicatore potenziale di futuri comportamenti antisociali nell’età adulta.

Tra l’altro, nella revisione del DSM-III (1987)1, dell’American Psychiatric Association e nella ICD (1996)2, della World Health Organization è stata inserita la crudeltà fisica nei riguardi degli animali tra i sintomi del disturbo della condotta. Questo disturbo, che viene generalmente classificato per la prima volta nell’infanzia o nell’adolescenza, è descritto come “modello ripetitivo e persistente di comportamento in cui i diritti fondamentali o le principali norme o regole sociali appropriate ad una determinata età vengono violati”. Sempre nel 1996 il senatore americano William Cohen, Ministro della Difesa, ha presentato una interpellanza al Congresso chiedendo che gli atti di crudeltà dei bambini e degli adolescenti nei confronti degli animali siano presi in maggiore considerazione, applicando pene più severe e offrendo una assistenza psicologica ai giovani autori di tali atti. Ha anche sottolineato che questo tipo di crudeltà deve essere analizzato non come fenomeno isolato, ma come elemento costitutivo e integrante di un quadro più generale di violenza.

In quell’occasione, il senatore ha fatto riferimento ai risultati della ricerca scientifica, che dimostra una correlazione tra crudeltà verso gli animali e crudeltà verso le persone, ricordando un fatto di cronaca: nel 1993 un ragazzo di 13 anni aveva ucciso un bambino di 4 anni. L’anno prima aveva strangolato il gatto dei vicini.Nel maggio 1998 i quotidiani italiani riportavano la notizia di un ragazzo di 15 anni, Kip K., che a Springfield, nello stato dell’Oregon, dopo aver ucciso il padre e la madre a fucilate era andato a scuola e aveva sparato 51 proiettili sui suoi compagni: 2 di loro erano morti, e 22 erano rimasti feriti. Nella foto il ragazzo mostrava un’aria smarrita, confusa, che non poteva non suscitare pietà e angoscia. Kip, che era descritto dagli adulti come un ragazzo <<ragazzo gentile, educato, abbastanza studioso>>, era visto invece dai compagni come <<un tipo strano, che uccideva gli animali con lento piacere, che riportava dalle sue passeggiate nelle abetaie scoiattoli ancora vivi e li tormentava infilandogli nel sedere petardi accesi>>3.

In quell’occasione i giornali ricordarono anche altri adolescenti che negli Stati Uniti avevano ucciso compagni, insegnanti e in alcuni casi, anche i genitori. Uno di questi era Luk W., di 16 anni, che nell’ottobre del 1997, a Pearl, nel Mississipi, aveva ucciso la madre, 2 compagni di scuola, (tra cui la sua ex ragazza) e ne aveva feriti altri 7. Poco tempo prima, Luke aveva descritto nel suo diario come aveva torturato e ucciso il suo cane. Dopo averlo picchiato con un bastone e cosparso di un liquido infiammabile, gli aveva dato fuoco e l’aveva gettato in uno stagno. Luke tra le altre cose aveva scritto: <<Non dimenticherò mai il verso che faceva mentre si spezzava sotto il mio potere (…) Non dimenticherò mai i suoi ululati (…) Sembravano quasi umani>>. Un vicino di casa, adulto aveva assistito alla scena, ma non aveva riferito l’accaduto né alla polizia, né a qualche associazione per la protezione degli animali.

Commentando l’episodio il prof. Frank Ascione ha giustamente osservato che la segnalazione avrebbe potuto evitare l’altra tragedia verificatasi poco tempo dopo. Il problema naturalmente non riguarda solo gli Stati Uniti basta ricordare, tra tanti altri casi, quello di uno studente giapponese di 14 anni che, nel maggio del 1997, sgozzò un compagno di 11 anni. La testa della vittima fu ritrovata davanti alla porta della scuola, con in bocca un macabro messaggio. La polizia arrestò il ragazzo sulla base di una serie di indizi, fra cui svariate teste di gatti rinvenute nei pressi della scuola. Sebbene la ricerca psicologica in questo campo sia stata effettuata soprattutto nell’area anglosassone. Gli Stati Uniti sono il paese in cui è stato realizzato di gran lunga il più grande numero di studi e dove più ampio è stato il dibattito su questi problemi non solo in ambiente accademico ma anche in quello giudiziario, politico, sociale e scolastico. Da alcuni anni presso L’istituto di Psicologia del CNR di Roma è in corso un progetto di ricerca sull’educazione contro la violenza di cui è il responsabile Francesco Robustelli e in cui svolge attività di ricerca Camilla Pagani4.

Tale ricerca prende in considerazione alcuni aspetti del fenomeno della violenza. Uno di questi aspetti, è appunto, quello della crudeltà dei bambini e degli adolescenti nei riguardi degli animali. Il quadro di riferimento è basato su di un concetto globale di violenza. “Ogni forma particolare di violenza”, afferma Robustelli, “è in genere riconducibile ad uno stesso tipo di rapporto maladattivo e nevrotico con la realtà, un rapporto che si struttura in un contesto sociale caratterizzato da un modello di vita competitivo, dall’esistenza di strutture di potere e, quindi, di gerarchie di individui. Queste gerarchie si fondano sulla base del potere che ogni individuo o ogni gruppo sociale ha su un altro individuo o ogni gruppo sociale ha su un altro individuo o su un altro gruppo. Nella nostra società, quindi, la violenza è soprattutto una violenza verso i più deboli, verso chi è ad un livello più basso nella scala gerarchica. Questo modello di vita è così pervasivo che di fronte ai normali conflitti nei rapporti tra individui, la maggior parte delle persone reagisce quasi automaticamente o, come alcuni erroneamente dicono, <<quasi istintivamente>> in modo aggressivo”.

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Definizione di crudeltà verso gli animali

Per facilitare il compito di definire la crudeltà nei confronti degli animali non umani si prendono in considerazione alcuni aspetti comuni alla crudeltà nei confronti dei bambini. Categorie di maltrattamenti verso i bambini spesso includono le seguenti forme di abuso: psicologico, sessuale, emozionale, trascuratezza.

Non è difficile produrre una sequela di esempi nei quali gli animali hanno sperimentato ognuna di queste forme di abuso. Tali forme di abuso comunque richiedono ulteriori elaborazioni poiché dall’esecuzione all’omissione che esse denotano possono variare in forma e gravità.

Per esempio, l’abuso fisico può andare dal prendere in giro alla tortura con gradazioni che in natura, possono essere più soggettive che oggettive in base alla prospettiva della vittima, dell’aguzzino o di potenziali osservatori. The Compact Edition of the Oxford English Dictionary (1971, p.114) include le seguenti caratteristiche attribuibili a persone che mostrano crudeltà: “disposta ad infliggere sofferenza… indifferente verso sentimenti di pena o piacere ricavabili dall’angoscia di un’altra persona… senza gentilezza o compassione… senza pietà… dura di cuore…”. Questa definizione e versioni simili nel Random House Dictionary of the English Language (1987, p.438), parlano tutte di dimensione affettiva e comportamento di crudeltà.

Rispetto a definizioni che si riferiscono in modo specifico alla crudeltà verso gli animali, Felthouse e Kellert (1987)5 definiscono sostanzialmente tale crudeltà come uno schema di danneggiamento inflitto deliberatamente, ripetutamente e gratuitamente, verso animali vertebrati in modo tale da causare gravi effetti sulle vittime. Questa definizione include una limitazione alle specie considerate introducendo una dimensione quantitativa nella valutazione del fenomeno (frequenza della crudeltà).

Brown (1988)6 definisce la crudeltà come “sofferenza inflitta gratuitamente e consapevolmente ad animali senzienti (umani e non)… La sofferenza può essere una sensazione di pena indotta da mezzi fisici o di angoscia indotta da atti di forzata cattività, oppure da una deprivazione materna. La crudeltà verso gli animali ha vari tipi di forme ad esempio un atto commesso contro l’animale oppure un’omissione cioè la mancanza di un’azione come quella di garantire cibo, acqua o riparo”.

Sia Felthouse e Kellert che Brown introducono i concetti di “deliberatamente” e “consapevolmente” fra le caratteristiche della crudeltà per escludere atti che avvengono in modo accidentale. Non è questo il caso della definizione data da Vermeulen e Odendaal (1992)7 quando affermano che la crudeltà sugli animali consiste in una: “intenzionale, maliziosa e irresponsabile tanto quanto una non intenzionale e ignorante inflizione di dolore, sofferenza, deprivazione distruzione o morte fisica e psicologica di un compagno animale dovuta a singoli o ripetuti incidenti”. Sebbene sviluppare una vasta e accettata definizione della crudeltà sugli animali sia un compito abbastanza difficile la forma che ha avuto maggior riconoscimento in tale senso è: “ La crudeltà verso gli animali è un comportamento sociale inaccettabile che intenzionalmente causa pena, sofferenza angoscia o morte gratuita ad un animale”. Ascione (1993)8

Escluse da tale definizione sono le pratiche sociali approvate relativamente al trattamento e all’uso di animali nelle pratiche veterinarie in quelle degli allevamenti o altre forme quali le pratiche agricole. Questa definizione esclude anche le controverse attività relative alla caccia e all’utilizzo di animali nei laboratori di ricerca [si veda Arluke (1992)9 per un approfondimento sulle pratiche di crudeltà sui primati, attuate in laboratori di ricerca] Alcune elaborazioni sui termini utilizzati nella definizione della crudeltà sugli animali possono essere utili a tale scopo: “Comportamento”, include atti di esecuzione (ad es. colpire un cane alla testa con una barra d’acciaio) e atti di omissione (ad es. deprivare un gatto domestico del cibo). “Socialmente inaccettabile” può in alcuni casi avere una connotazione genericamente valida in tutte le culture (ad es. dare fuoco ad un uccello vivo) mentre in altri casi si possono evidenziare vari modi di giudicare tale accettabilità a livello culturale, come accade ad esempio relativamente alla scelta delle specie di mammiferi accettabili da utilizzare quali beni di consumo umano. “Intenzionale” si riferisce ad atti di esecuzione o omissione portati avanti volontariamente per perseguire uno scopo a differenza di tutti quegli atti eseguiti in modo inconsapevole e/o accidentale. “Dolore, sofferenza e angoscia”, si riferiscono molto spesso agli effetti nocivi di atti fisici condotti su corpi di animali o in modo diretto o per mezzo di strumenti o agenti (ad es. pistole, soluzioni caustiche, veleno).

Dolore, sofferenza e angoscia sono giudicati in base agli schemi di risposta caratteristici di ogni specie. Il dolore, la sofferenza e l’angoscia fisica, possono essere distinti dalla pena, sofferenza, angoscia psicologica ed emozionale, (ad es. mantenere un animale separato ma in prossimità fisica del suo naturale predatore) sebbene entrambe le dimensioni debbano essere considerate con la stessa attenzione . Comportamenti passivi e manifestazioni di piacere quando si è testimoni di episodi di crudeltà verso gli animali non sono direttamente inclusi in tale definizione, comunque un bambino che prova piacere nell’assistere ad atti di crudeltà nei confronti degli animali può pienamente essere oggetto di tutti gli studi che sono stati condotti sull’argomento preso qui in considerazione.

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Ricerche condotte sul legame che intercorre tra crudeltà dei bambini verso gli animali e successivo comportamento antisociale e aggressivo

Ci sono numerosi casi studiati di crudeltà dei bambini e adolescenti nei confronti degli animali, casi di crudeltà che rientrano nella categoria di Fromm (1973)10 detta “aggressione maligna” (che si distingue da quella difensiva, non strumentale o “aggressione benigna”). I primi esempi includono le descrizioni di comportamenti sadici verso animali associati a varie forme di bestialità riportate da Krafft-Ebing (1906)11 e l’analisi di “A Little Chanticleer” di Ferenczi (1916)12: “Il caso fu che un bambino di cinque anni di nome Arpard… Qualunque genere di pollame fosse in vendita… Arpard non dava pace alla madre finché non ne comprava qualcuno. Egli voleva essere testimone della macellazione… Le sue curiosità e azioni… mostravano un’inusuale piacere e fantasie sulle pratiche di tortura e uccisione di tali animali… La sua crudeltà si manifestò in seguito anche nei confronti degli esseri umani…”

Studi più recenti includono l’analisi di Bettelheim (1955)13 del caso di Mary, che approssimativamente all’età di cinque anni, cercava di uccidere animali dandogli fuoco, cosa che tentò di fare anche verso altri bambini e la predizione di crudeltà verso gli animali di Redl e Wineman (1951)14 nei comportamenti antisociali dei bambini frequentanti il centro terapeutico Pioneer House. Nelle osservazioni di alcuni dei bambini che interagivano con i cani Redl e Wineman notarono: “ La cosa affascinante è che i bambini duplicano nella relazione con il cane alcuni degli schemi sintomatici essenziali che esistono nella relazione con gli umani…”.

Questi casi producono ricche descrizioni della crudeltà dei bambini verso gli animali ma non esaminano direttamente lo sviluppo di continuità o di discontinuità di ciascun comportamento. Le storie di diciotto bambini a cui si fa riferimento per una valutazione clinica in parte sulla crudeltà su animali da compagnia, furono descritte in modo dettagliato da Tapia (1971)15. Questi bambini dell’età dai 5 ai 15 anni, erano stati protagonisti di episodi di crudeltà a vario livello nei confronti di animali domestici, d’allevamento, da cortile e selvatici.

In uno studio condotto successivamente su tali bambini divenuti adolescenti due o nove anni dopo, Rigdon e Tapia (1977)16 riportarono che dei tredici bambini che poterono essere realmente riabilitati il 62% manifestava ancora un comportamento di abuso verso gli animali, (fra cui un 38% si rese partecipe di trattamenti definibili crudeli). Sfortunatamente la verifica di incidenti crudeli non è presente in questi saggi come non è incluso un tentativo di mettere in scala la gravità della crudeltà dimostrata da questi bambini, problema comune a molte ricerche condotte in quest’area. In più non vengono mai fatti studi comparativi fra bambini con patologie e non. Tutto ciò comunque non toglie a questi primi studi il merito di aver fornito numerose descrizioni e informazioni sulla crudeltà da parte dei bambini nei confronti degli animali e dettagli clinici molto ricchi sui fattori familiari possibilmente conducibili a tale comportamento. Una ricerca retrospettiva critica fu condotta da A.Felthous, S.Kellert e i loro associati.

Le storie di crudeltà verso gli animali da parte dei bambini, (le cui percentuali vengono riportate in parentesi), furono esaminate in uomini che erano pazienti psichiatrici (25%) (Felthous 1980)17, uomini aggressivi (25% “sostanzialmente crudeli”) in prigione, in un gruppo di uomini non in carcere (0%) (Kellert e Felthous 1985)18 e in donne aggressive (36%) e non aggressive (0%) (Felthous e Yudowitz 1977)19. Questi studi generalmente sostengono una relazione esistente fra schemi contemporanei di aggressione interpersonale e storie di crudeltà verso gli animali. Il valore dato a tali ricerche è quello prognostico della crudeltà verso gli animali.

In una ricerca retrospettiva con campioni più selezionati di adulti (28 carcerati e non carcerati) perpetratori di omicidi sessuali Ressler, Burgess e Douglas (1988)20 evidenziarono che la prevalenza di crudeltà verso gli animali era del 36% nell’infanzia e del 46% nell’adolescenza. Tingle, Barnard, Robbins, Newman e Hutchinson (1986)21 trovarono che nel loro campione di 64 uomini, il 48% di violentatori in carcere e il 30% di molestatori di bambini ammisero di essere stati protagonisti di atti di crudeltà nei confronti degli animali durante l’infanzia e l’adolescenza. In alcuni casi l’uccisione di animali fu seguita dall’uccisione di uomini. Hikey (1991)22 rilevò che un assassino ammise di aver ucciso numerosi cuccioletti per rivivere l’esperienza di uccidere la sua prima vittima bambino.

Con l’assistenza dello Utah Division of Youth Correction, nella primavera del 1992 furono raccolti dati valutando giovani liberi e giovani carcerati. Quasi tutti i 96 partecipanti erano ragazzi di età compresa fra i quattordici e i diciotto anni (il 65% dei quali erano fra i 16 e i 17 anni). Il 21% per cento di questi giovani sotto analisi e il 15% dei ragazzi incarcerati riportarono di aver torturato animali negli ultimi dodici mesi. Altri due studi riportano esempi di ricerche su campioni clinici di giovani in cui è stata valutata la crudeltà verso gli animali. Lewis, Shanok, Grant e Rivo (1983)23 studiarono cinquantuno ragazzi sotto sorveglianza di età compresa fra gli otto e i dodici anni. In 21 di loro fu riconosciuta una aggressività omicida in 30 no. La prevalenza dei dati riportati sulla crudeltà verso gli animali nei due gruppi fu rispettivamente del 14% e del 3%. Wochner e Klosinski (1988)24 selezionarono cinquanta bambini e adolescenti, fra bambini sotto sorveglianza e no, la metà di loro registrò comportamenti di crudeltà verso gli animali. La prevalenza di comportamenti sadici registrata verso le persone fu rispettivamente ai due gruppi del 32% e del 12%. Poiché non si pensi che lo studio del fenomeno della crudeltà verso gli animali sia circoscritto a campioni di persone in prigione e a pazienti psichiatrici, bisognerebbe notare che l’ampiezza del problema include anche la tolleranza dell’adulto nei confronti della crudeltà dei bambini verso gli animali, atteggiamenti di abuso nei confronti del bestiame nelle aste (Gradin 1988)25 e atteggiamenti violenti sugli animali da parte di bambini che hanno vissuto lunghi periodi di guerra (Randal e Boustany 1990)26.

Un ultimo ma significativo esempio della rinnovata attenzione relativamente a questa area di studi, è dato da una serie di sessioni di conferenze professionali, sponsorizzate da associazioni che promuovono un “trattamento umano” dell’animale, specificatamente incentrate sulla crudeltà dei bambini nei confronti degli animali e il suo legame con comportamenti violenti protratti nel tempo. Queste sessioni sono state incluse in conferenze della Animal Protection and Child Protection Division dell’American Humane Association (settembre 1990), della Delta Society (ottobre 1990) e in workshop sponsorizzati dalla Latham Fondation. Nel novembre del 1991 una conferenza totalmente sponsorizzata dalla Child Protection e dall’Animal protection Divsion dell’American Humane Association, si concentrò specificatamente sulla violenza dei bambini verso gli animali (Moulton, Kaufmann e Filip 1992)27. Sono avvenute anche presentazioni in occasione della sesta International Conference on Human-Animal Interactions (Ascione giugno 1992)28 e in una conferenza sponsorizzata dalla Geraldine R.Dodge Foundation (Ascione settembre 1992)29.

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L’atteggiamento violento e il disprezzo dell’altro

La tendenza all’aggressività, si può esprimere in modi completamente diversi e non necessariamente violenti. Del resto se l’aggressività come tendenza fa parte del nostro modo di essere, la violenza come espressione di aggressività fa parte del tipo di educazione che noi riceviamo. È l’educazione che definisce il modo in cui si manifesterà questa tendenza, attraverso un percorso ad esempio di veemenza verbale piuttosto che uno di violenza fisica. La violenza perciò non è propriamente un problema d’istinto, ma è un modo appreso di esprimere un istinto. L’educazione, e in questo si intende soprattutto l’esempio, indirizza, plasma, dà forma all’aggressività. Il bambino tende ad imitare il comportamento dell’adulto, se l’adulto mostrerà atteggiamenti di crudeltà il bambino cercherà di imitarlo o comunque si assuefarà ad essi. Per il fanciullo animale o uomo sarà completamente indifferente.

Egli impara infatti l’atteggiamento violento, poiché viene educato a porsi in modo crudele nei confronti dell’alterità. È necessario tenere in considerazione proprio questi due punti, ovvero l’atteggiamento violento e il disprezzo dell’altro, come due costumi in qualche modo preparatori di successive azioni di violenza.

L’ATTEGGIAMENTO VIOLENTO è una disposizione che si viene a formare nel rapporto con la realtà esterna, in particolar modo con le persone più vicine, ad esempio il genitore. Se al bambino ci si rapporta con violenza egli imparerà ad interagire con il mondo esterno, in modo violento, esattamente come tutte le altre abitudini domestiche, quali il tono della voce, la cadenza del linguaggio, il modo di gesticolare. Esiste perciò un ambito che si potrebbe dire automatico dell’atteggiamento violento che è stile di vita, quotidianità, abitudine. In tale ambito l’atteggiamento violento è rivolto ad un “mondo esterno”, “altro da sé”, che comprende indifferentemente uomini o animali, ciò è testimoniato dalla recente ricerca psicologica che ha dimostrato che in una famiglia violenta che possiede un animale domestico, la violenza viene spesso esercitata non soltanto nei confronti di uno o più membri della famiglia (in genere le donne o i bambini), ma anche nei confronti dell’animale. I comportamenti violenti possono essere manifestati sia dagli adulti che dai bambini.

Uno studio molto importante in questo campo è stato quello effettuato da Deviney, Dickert e Lockwood (1983). Gli autori hanno esaminato un certo numero di famiglie del New Jersey che avevano un animale domestico. Queste famiglie erano anche conosciute dai servizi sociali per maltrattamenti nei confronti dei minori. Hanno potuto rilevare che nel 60% di queste famiglie i maltrattamenti riguardavano anche l’animale domestico. Giustamente gli autori hanno sottolineato che i maltrattamenti degli animali possono essere un indicatore potenziale di altri problemi familiari. Questi dati sono stati confermati da numerose ricerche. In un’indagine svolta da F.R.Ascione nel 199730, nei più grandi centri di accoglienza degli Stati Uniti per donne picchiate dai partner, è stato rilevato che è molto frequente che le donne e i bambini ospiti di questi centri parlino di maltrattamenti nei confronti dei loro animali domestici, anche se nella maggioranza dei casi di norma nel colloquio iniziale il personale non rivolge loro domande specifiche su questo problema.

In altro studio Ascione (1997) ha messo a confronto due gruppi di donne, il primo costituito da donne picchiate, ospiti in un centro d’accoglienza, il secondo da donne che non erano mai state picchiate. Tutte le donne dei due gruppi avevano, o avevano avuto negli ultimi dodici mesi, un animale domestico. Il 52% delle donne picchiate, rispetto al 16.7% delle donne non picchiate, ha riferito che il partner aveva minacciato di fare del male all’animale domestico. Le minacce erano più gravi nel primo gruppo. Il 54% delle donne picchiate, rispetto al 3.5% di quelle non picchiate, ha riferito che l’animale era stato ferito o ucciso. Metà delle donne del primo gruppo, rispetto al 4% di quelle del secondo, ha anche raccontato che i figli erano stati testimoni di questi maltrattamenti. Molti bambini che vivono in famiglie violente sono a loro volta violenti verso gli animali che hanno in casa o verso gli animali in genere. Friederich (1992)31 ha rilevato che i bambini che hanno subito abusi sessuali manifestano comportamenti crudeli verso gli animali più frequentemente dei bambini che non hanno subito abusi sessuali (il 35% rispetto al 5% nei maschi, il 27% rispetto al 3% nelle femmine).

Non a caso un altro ambito della violenza da tenere in considerazione è legato all’esperienza di violenze subite: quasi sempre i cosiddetti mostri, che uccidono a ripetizione a causa di turbe psichiche, hanno subito da bambini quella che viene definita “pedagogia nera”, cioè una storia complessa di maltrattamenti. Un bambino che riceverà violenza da un genitore tenderà ad essere più violento o meglio, dovrà sforzarsi di più per mitigare questa disposizione. Ciò viene ampiamente documentato da John Douglas32 nella sua autobiografia Mind Hunter, il cacciatore di menti. La mente a cui per quindici anni Douglas ha dato la caccia è quella dei criminali che non agiscono in base ad un movente, e che proprio per questo ci appaiono come la più mostruosa, crudele e inquietante manifestazione del male assoluto: i Serial Killer.

Per scoprire i serial killer, l’autore ha sviluppato la tecnica investigativa del “profilo psicologico”: ogni indizio, ogni tratto che rivela un’abitudine, ogni costante nella scelta delle vittime o nelle modalità dell’omicidio serve, in mano a Douglas e agli altri agenti della “Sezione Ricerche Comportamentali” dell’FBI, a designare quell’identikit psicologico che rappresenta l’arma più efficace per snidare criminali diabolicamente astuti e accorti. Tra i tantissimi casi trattati e risolti da Douglas nel corso della sua attività di anni, riporto qui in breve, quelli che mi sono sembrati i più significativi rispetto all’argomento trattato in questo contesto (violenza subita/maltrattamento animale).

I casi di Ed Kemper, Richard Speck e Robert Hansen. “Ednund Emil Kemper III era nato il 18 dicembre del 1968 a Burbank, California. Aveva due sorelle più giovani e i genitori si erano separati dopo anni di continui litigi. Quando cominciò ad esibire comportamenti <<strani>>, tra i quali lo smembramento dei due gatti di casa e l’espletamento di bizzarri rituali di morte con la sorella maggiore, Susan, la madre decise di affidarlo alla all’ex marito. Successivamente, quando fuggi per tornare da lei, Ed fu accolto dai nonni paterni che abitavano in una fattoria isolata. Qui visse solo e infelice fino a un pomeriggio dell’agosto del 1963, quando, quattordicenne, sparò con un fucile calibro 22 alla nonna Maude, e ne pugnalò ripetutamente il cadavere con un coltello da cucina. (…) Sapendo che il nonno non avrebbe ritenuto accettabile il suo comportamento, l’adolescente ne attese il ritorno e dopo averlo ucciso ne lasciò il cadavere in cortile. Alle domande della polizia, rispose stringendosi nelle spalle che si era semplicemente chiesto che effetto avrebbe fatto sparare alla nonna. Dimesso dall’ospedale psichiatrico di Stato di Atascadero, nonostante il parere contrario degli psichiatri, fu affidato alla madre che dopo il fallimento del terzo matrimonio lavorava come segretaria presso l’università della California. (…) il 9 gennaio del 1973, Kemper rapì un’altra studentessa, Cindy Schall. Minacciandola con un fucile, la costrinse ad entrare nel bagagliaio della sua auto e quindi le sparò. Seguendo uno schema ormai abituale, portò il cadavere a casa, lo violentò, lo sezionò nella vasca da bagno e quindi ne sparpagliò i resti, chiusi in sacchetti, a Carmel sulla scogliera. La testa della Schall venne sepolta nel cortile sul retro, con il viso rivolto verso la camera da letto della madre di Kemper. Lei non aveva forse sempre voluto che la gente alzasse gli occhi per guardarla? (…) Kemper fu condannato per otto omicidi di primo grado, e quando gli venne chiesto quale punizione ritenesse adeguata alle proprie colpe rispose: << La morte per tortura >>. (…) Non c’era da dubitare che il matrimonio dei suoi fosse stato un terribile errore. Sua madre, ci disse lo aveva odiato proprio perché assomigliava all’ex marito. A dieci anni Ed era già gigantesco, e a quel punto Clarnell (così si chiamava la donna) aveva cominciato a temere che molestasse la sorella Susan. Per impedirlo prese l’abitudine di chiuderlo ogni sera a chiave nello scantinato. Ed era terrorizzato da quelle lunghe notti solitarie, e fu allora che iniziò a nutrire risentimento verso le due donne. Più o meno nello stesso periodo i genitori arrivarono alla separazione definitiva. A causa delle sue dimensioni, della timidezza e della mancanza di un modello famigliare in cui identificarsi, Ed era sempre stato un ragazzo chiuso e diverso. Venire rinchiuso come un prigioniero nel seminterrato contribuì a farlo sentire colpevole e pericoloso senza che in realtà avesse fatto nulla di male, e a suscitare in lui propositi omicidi. Fu in seguito a questa esperienza che mutilò e uccise i due gatti di casa, uno con un coltello a serramanico e l’altro con un macete. Successivamente si sarebbe scoperto che le manifestazioni di crudeltà verso i piccoli animali durante l’età infantile costituivano la chiave di volta di quella che sarebbe divenuta nota come la << triade omicida >>, e che comprende l’enuresi notturna e al tendenza alla piromania. (…) In molti degli autori di omicidi a sfondo sessuale, il passaggio dalla fantasia alla realtà conosce più fasi ed è spesso incentivato dalla pornografia, da morbosi esperimenti sugli animali e dalla crudeltà verso i propri simili. (…) Kemper ci raccontò che prima di smembrare i due gatti di casa aveva rubato una delle due bambole della sorella e le aveva tagliato la testa e le mani. Su un altro livello la principale fantasia di Kemper era quella di liberarsi della madre dominatrice e violenta, e tutto il suo operato di assassino può essere letto in questo contesto. Tutto quanto ho appreso e sperimentato mi dice che gli individui sono responsabili delle loro azioni. Eppure, a mio avviso Ed Kemper non era nato assassino. Avrebbe intrattenuto simili atroci fantasie se avesse avuto una vita famigliare più stabile, affettivamente più ricca? Impossibile saperlo. Ma avrebbe agito come ha fatto se non avesse nutrito una terribile collera verso la figura femminile dominante della sua vita? Io non credo… mi sembra evidente che l’escalation omicida di Kemper debba essere letta come un tentativo di farla pagare alla cara vecchia mamma. Compiuto l’atto supremo il dramma giunge a compimento.”33

“Richard Franklin Spek condannato a più ergastoli per l’omicidio di otto allieve infermiere in un’abitazione di Chicago nel 1966, (…). Non era esattamente un detenuto modello. (…) Un giorno, trovò e curò un passerotto che si era ferito entrando da una finestra coi vetri rotti. Prese l’abitudine di legarlo per la zampina con una cordicella e di farlo appollaiare sulla sua spalla. A un certo punto, però, una delle guardie gli fece notare che gli animali non erano ammessi. << Non posso tenerlo? >> replicò Speck in tono di sfida, e avvicinandosi ad un ventilatore in funzione vi cacciò dentro il passerotto. << Credevo che quell’uccellino ti piacesse >> balbettò l’agente orripilato. << E così era >> replicò l’altro. << Ma se io non posso averlo, non lo avrà nessuno.>>”34 “ Nel 1924, Richard Connell scrisse un breve racconto intitolato The Most Dangerous Game. Parlava di un esperto di caccia grossa, il generale Zaroff, che, stanco degli animali, si era dedicato ad una preda ben più intelligente e interessante: gli esseri umani. Per quanto ne so, fino al 1980 circa, il racconto di Connell rimase confinato nel regno della fantasia, ma tutto cambiò con l’entrata in scena di un mite fornaio di Anchorage, Alaska: Robert Hansen.”35 Hansen violentò e uccise quattro prostitute. “Mi sembrava inoltre molto significativo che Hansen fosse noto come abile cacciatore. Con questo non voglio dire che tutti i cacciatori sono personalità inadeguate, ma l’esperienza mi ha insegnato che molti cercano di compensare la propria inadeguatezza praticando la caccia o il gioco della guerra.”36 Il maltrattamento degli animali ha delle forti connotazioni psicologiche, la violenza spesso è un modo per superare un forte senso di inferiorità. Per quanto riguarda i bambini ad esempio, è importante riflettere anche sul ruolo di rivalsa che la violenza sugli animali rappresenta. Il bambino è sottoposto ad un ambiente coercitivo, zeppo di regole e perciò di imposizioni, che evidentemente sono direttamente proporzionali al grado di complessità tecnologica del nostro ambiente di vita. Quale influenza può avere questo reiterato stato di incapacità, di isolamento in un mondo altamente complesso? Adler sottolinea come in realtà l’atto crudele non sia altro che una sovrastruttura compensatrice di un sentimento di inferiorità. È necessario quindi prevenire quelle forme di frustrazione che tendono a generare spontaneamente fenomeni di violenza e sviluppare nel bambino quello stato di equilibrio psicologico definito da Piaget come capacità del soggetto di affrontare le perturbazioni esterne, cioè di creare un sistema aperto di compensazione. La frustrazione va perciò in direzione opposta ad un’educazione che si ponga come obiettivo la prevenzione della risposta violenta da parte del fanciullo. “L’atteggiamento violento è l’esito di un processo diseducativo complesso e reiterato che va analizzato con attenzione perché è sempre una spia di un qualche cosa che non va. La violenza sugli animali inoltre funge quasi sempre da battistrada per altre forme di violenza, perché determina dei meccanismi di rinforzo altamente pericolosi.”37

IL DISPREZZO DELLA ALTERITA’ è un fenomeno molto diffuso nel nostro tempo, anche se a parole l’uomo di oggi si spreca in demagogiche affermazioni di rispetto per il prossimo. È infatti il modello culturale, il paradigma su cui si regge la nostra società, che nega il riconoscimento dell’alterità spingendo al massimo il pedale dell’egotismo e creando uno squilibrio tra l’io e l’alterità. “L’altro, nell’immaginario odierno, è il luogo dove finisce il nostro piacere, è il confine della libertà, è un termine da spostare giacché le frontiere del nostro io si devono espandere all’infinito. Questo modello è ancora più vero se applicato agli animali poiché è sostanziato da una cultura fondata sulla valorizzazione di tutta la realtà non umana. L’alterità animale non viene riconosciuta e pertanto non è visibile nel modello culturale attuale. Questo problema di visibilità si traduce in un’incapacità di improntare percorsi educativi empatici, e di riconoscere dei bisogni del tutto differenti da quelli umani. La nostra cultura che pone l’uomo come sistema metrico delle espressioni e delle esigenze fa dell’animale una specie di errore che non vale la seppur attenzione morale. Si riscontra con molta più frequenza un’ostinazione agnostica, nell’esaminare le questioni riguardanti l’alterità animale, che rivela in realtà il bisogno di mantenere in ambito culturale lo status quo. In realtà solo riconoscendo una concezione morale di alterità animale si potranno combattere efficacemente le violenze quotidiane sugli animali.

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La crudeltà “normale” nei riguardi degli animali

Qualcuno potrebbe obiettare che, anche se molti bambini e adolescenti effettivamente compiono atti di crudeltà verso gli animali, questi comportamenti non sono sempre così estremi ed atroci come quelli descritti nei paragrafi precedenti.

Innanzi tutto va sottolineato che la scuola, negli ultimi anni si è fatta portavoce di istanze ecologiche e comunque di rispetto dei diritti umani e dei diritti degli altri esseri viventi. Anche attraverso i mass media, che pure non danno a queste tematiche tutto lo spazio che meritano, i bambini e gli adolescenti hanno sempre sentore, per quanto confusamente, di alcune idee che circolano sulla necessità del rispetto degli animali e sul problema della loro sofferenza.

Quindi, i bambini e gli adolescenti non crescono in un vuoto culturale e se compiono atti di crudeltà verso gli animali (tranne quando si tratta di bambini nella primissima infanzia), in genere li compiono con una certa consapevolezza del significato di quanto stanno facendo e delle conseguenze fisiche e psichiche per gli animali stessi.

Questi comportamenti, rileva Camilla Pagani38, anche se non gravi come quelli descritti prima, non devono essere ignorati, perché possono essere comunque l’espressione di un disagio psicologico attuale, su cui l’educatore deve indagare ed intervenire, e segnali premonitori di futuri comportamenti antisociali.

Si cita a questo proposito il caso di un ragazzo italiano di 12 anni (che verrà chiamato Paolo), frequentante la seconda media.

Qualche anno fa la sua insegnante di lettere (che partecipava ad un corso di aggiornamento sull’educazione contro la violenza per docenti della scuola secondaria, organizzato da F.Robustelli e dalla Pagani39 per conto dell’istituto di psicologia del CNR), portò alla dottoressa un suo scritto eseguito a casa. Ecco il testo completo e fedelmente trascritto (errori inclusi) del tema che era intitolato “ I miei hobbies”:

Io di Hobby ne ho un po’ però, quello che meno applico e giocare al computer perché m’annoia invece l’hobby che applico di più è la caccia alle lucertole. Io preferisco prima torturarle e poi ucciderle lentamente oppure sgozzarle senza farle soffrire poi una volta morte eseguo l’autopsia aprendogli il torace con dei vetri per poi asportare degli organi una cosa che faccio di rado è tagliargli una o più zampe per poi lasciarle. Quando non ho voglia di aprirle gli trapasso da parte a parte gli occhi tutto ciò quando la vittima è viva con un ferro senza ucciderle per poi lasciarle penzolare attaccate ad un albero finché un uccello non le prenderà e così assicuro un pranzo ad un uccello. D’inverno quando non ci sono oppure in primavera che non mi va di cacciarle vado con gli amici a centro Serena in bici sulle strade non asfaltate con salti e montarozzi oppure girovagare per i scavi e una volta io e un mio amico abbiamo trovato una grotta piuttosto buia e così non abbiamo ritenuto prudente addentrarci in quel tetro corridoio più di tanto. Altre volte invece gioco a pallone con gli amici in casi estremi quando piove per esempio sto con mio fratello insomma non mi annoio mai.

La crudeltà di Paolo verso gli animali può essere considerata di tipo “normale”, soprattutto tra i bambini e gli adolescenti di sesso maschile, fondamentalmente legata a certi stereotipi culturali, ma non è affatto da sottovalutare, come molti educatori fanno spesso in questi casi.

Nel quaderno di Paolo dove è stato scritto questo tema ce ne sono parecchi altri, più o meno della stessa lunghezza, alcuni persino più brevi, tutti comunque, nel loro genere, molto interessanti.

Il riferimento agli animali appare in altri due.

In uno l’animale è visto positivamente. Paolo racconta che ha un nonno, vedovo e ammalato, cui la sua famiglia ha regalato un canarino perché gli tenga compagnia. Nel secondo, invece, ritorna l’atteggiamento crudele. Descrivendo con immagini da telenovela un colpo di fulmine per una ragazza che ha visto sulla spiaggia, Paolo racconta come poco prima si stesse annoiando (ritorna il motivo della noia che compare anche nel tema delle lucertole) perché, tra l’altro, non c’erano in giro scarafaggi da uccidere.

Dalla lettura di questi temi la Pagani sottolinea come emerge un quadro che non è rassicurante. Innanzitutto, si può rilevare che almeno per quanto riguarda l’uso della lingua scritta e i commenti espressi, il livello di preparazione e la maturità del ragazzo siano inferiori a quelli che dovrebbe avere un adolescente di seconda media. L’impressione generale che si ricava (e che è stata confermata dall’insegnante) è che Paolo sia un ragazzo abbandonato, trascurato, secondo quelle modalità che si possono definire “normali”, perché sono tipiche di molte famiglie, in cui i genitori, per svariati motivi, talvolta anche senza esserne del tutto consapevoli, non si comportano in modo sufficientemente responsabile nel loro rapporto con i figli.

Alcune frasi nei temi rivelano scarsa spontaneità, sono stereotipate e artificiose. Certe idee e immagini riecheggiano dei cliché. Si intuisce una scarsa abitudine ad un’effettiva e profonda comunicazione con gli altri e ad un’indagine introspettiva. Si ha spesso una sensazione di vuoto e di noia (il riferimento alla noia appare ben due volte nel tema, pur così breve), nonostante la baldanzosa chiusura: “insomma non mi annoio mai”. È da tenere presente, poi, che il fratello di cui parla Paolo è un bambino di circa due anni, la cui nascita non era stata programmata dai genitori e che il ragazzo non sembra considerare una compagnia molto desiderabile perché ci ricorre “in casi estremi”. Paolo ha anche tre sorelle più grandi, ormai praticamente adulte, con cui, almeno da quello che suggeriscono i temi, non ha un rapporto particolarmente positivo.

Secondo quanto riferisce l’insegnante, il ragazzo ha manifestato in varie occasioni atteggiamenti molto ostili nei confronti degli extracomunitari, degli omosessuali e degli animali, cioè di alcune categorie di individui, o comunque di esseri viventi, che definiamo spesso come i “diversi” e in alcuni casi come “gli emarginati”. La scuola di Paolo, anche per sollecitazioni del Capo d’istituto, è particolarmente sensibile alle tematiche del rispetto e della tolleranza nei riguardi del diverso. A questo orientamento il ragazzo si ribella apertamente.

Attraverso il suo atteggiamento ostile, sembrerebbe quasi che Paolo chiedesse: “Perché vi preoccupate tanto degli extracomunitari, degli omosessuali, degli animali? Di me chi si occupa? Perché non vi preoccupate di me?”

Quando l’insegnante ha detto alla madre di Paolo che sarebbe stato opportuno che il ragazzo fosse visto da uno psicologo, la madre ha espressamente invitato l’insegnante, delegandole l’intera faccenda, a compiere tutti i passi necessari presso l’ASL.

Ad un anno di distanza, alcuni comportamenti del ragazzo fanno apparire la situazione ancora più critica. Dai dati che si possiedono è possibile rilevare anche che probabilmente il ragazzo non ha raggiunto un adeguato sviluppo delle capacità empatiche, cioè della capacità di immedesimarsi dal punto di vista cognitivo ed affettivo. “Solo attraverso lo sviluppo di queste capacità è possibile realizzare rapporti più costruttivi, più collaborativi e più amorevoli con gli altri, e una più civile convivenza. Inoltre, il compiere atti crudeli verso gli animali può contribuire a desensibilizzare l’autore di questi atti crudeli nei confronti della violenza in generale e nei confronti della sofferenza degli altri e quindi a ridurre ulteriormente le sue capacità empatiche"40

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L’empatia nei confronti dell’animale


In psicologia il termine empatia viene indicato come la capacità di immedesimarsi in un altro, ovvero di assumere i panni dell’altro o di calarsi nel suo profondo.

In questa sede, riprendendo l’interpretazione di R. Marchesini si utilizzerà il termine come tendenza, cioè disposizione d’animo, potenzialità a coniugarsi con un animale.

Concetto che viene chiarito meglio dal racconto di un episodio accaduto proprio al dottore stesso.

Egli racconta che qualche anno fa, visitando una della tante fiere che si svolgono nel nostro Paese, ha assistito ad una scena che lo ha fatto molto pensare.

In un banchetto erano assiepate alla meglio montagne di gabbiette che ospitavano un numero esorbitante di uccelli impauriti, intorno solo una folla di persone a ridacchiare, nient’altro.

Gli uccelli, nella disperazione causata dalla folla e dal frastuono, si dibattevano miseramente contro le maglie della gabbia, ferendosi ai fianchi del becco fino al punto di sanguinare.

Era una cosa del tutto normale e nessuno dei presenti si sognava di protestare, nessuno trovava quello spettacolo sconveniente.

Chiaramente, Marchesini, riferisce che quello a cui stava assistendo non era altro che il frutto di una generalizzata sensibilità ottusa, incapace di identificarsi negli occhi impauriti di un piccolo passero o nel terrore di una quaglia.

Quel dolore non poteva trasformarsi in chi assisteva in compassione proprio perché mancava empatia. Lorenz, avrebbe detto che per quella gente il dolore della quaglia “non era reale”.

Il grosso problema perciò non era legato al fatto che quelle persone non comprendessero razionalmente il terrore di quegli animali, bensì che nessuno degli astanti avesse l’umiltà, o comunque la capacità, di mettersi nei panni di una quaglia.

Marchesini parla di tendenza all’empatia perché non crede sia realizzabile nei conversi di un animale un pieno processo identificativo. Inoltre il più delle volte questo processo è sbagliato per il fatto che non tiene conto delle peculiarità di ogni essere vivente, in quanto individuo, e porta inevitabilmente all’antropomorfismo. Ma come tendenza essa manifesta il suo carattere di pulsione, cioè desiderio/spinta alla coniugazione ed è quindi propedeutico per qualsiasi comprensione dell’alterità.

La psicologia infantile austriaca G.Crewenka-Wenkstetten ha potuto constatare come la facoltà di amare e di provare amicizia siano strettamente collegate alla pulsione del bambino verso l’esterno.

Comportamento esplorativo, curiosità, pulsione alla coniugazione sono caratteristiche indispensabili per creare nel soggetto dei “legami”. Lorenz afferma che già tra i pesci di ordine inferiore è possibile dimostrare che la conoscenza personale attenua l’aggressività. La tendenza empatica è in poche parole la disposizione d’animo indispensabile per poter creare dei legami. Peter Berger e Thomas Lukman hanno dimostrato che ognuno considera reale solo ciò con cui si trova in un rapporto di reciproca interazione. E qui evidentemente si è già in grado di comprendere cosa si volesse dire nell’affermare che per quella gente il dolore della quaglia non era reale.

È impensabile parlare di rispetto dell’alterità se non si hanno le carte in regola nemmeno per sentirne la presenza. La tendenza empatica come capacità di creare dei legami è perciò premessa indispensabile per conoscere l’altro.41


La compassione nei conversi dell’animale


Un secondo aspetto da analizzare è la capacità di partecipazione. Riconoscere un dolore non comporta automaticamente partecipare a quel dolore.

Avere la capacità di compassione in situazioni che non ci vedono coinvolti in prima persona è sicuramente un passo difficile proprio perché non siamo abituati ad andare oltre noi stessi. È come un limite che abbiamo, dato dall’incapacità di sentire, un tempo si diceva “col cuore”, qualcosa al di là del nostro ego.

Partecipare alla sofferenza altrui è conseguente all’avere acuito la propria sensibilità e questo senza dubbio presenta risvolti positivi nell’intero spettro educativo e sociale.

Con questo non si intende che il bambino debba soffrire per ogni azione malvagia che si compia sulla Terra, sarebbe impossibile e sarebbe consegnarlo comunque ad una disposizione pessimistica della vita. Il partecipare va inteso nella sua valenza morale, significa non essere semplice spettatore di una malvagità, riconoscendola come tale, ma sentirsi chiamati in causa per cercare di interromperla e alleviare lo stato di sofferenza.

Non si può rispettare gli animali se non ci si batte per difenderli, il rispetto infatti non va inteso solo in senso negativo, cioè astenersi dal compiere un atto malvagio; è infatti prima di tutto militanza a pieno campo nel diffondere idee, prevenire o fermare atti di crudeltà.

In questo senso la partecipazione è vigilanza, senso di responsabilità morale. Inoltre accrescere questa capacità è di massima utilità anche per l’individuo stesso. La capacità di partecipazione tende ad allargare l’orizzonte dell’individuo.


Un concetto globale di violenza


Sono state analizzate le motivazioni che spingono un individuo ad essere crudele verso gli animali. F.Robustelli e C.Pagani sottolineano che tali motivazioni devono sempre essere valutate nell’ambito di un concetto globale di violenza, nell’ambito quindi di atteggiamenti e di comportamenti generali di individui e di un modello di vita competitivo che oggi prevale nella nostra società. Sulla base di questo modello, gli altri sono spesso visti come rivali e nemici e la società si costruisce attraverso strutture gerarchiche, le quali a loro volta si formano secondo la quantità di potere che un individuo, o un gruppo di individui, ha su un altro individuo o su un altro gruppo di individui. Il clima che ne deriva non può che accrescere sentimenti di insicurezza, a cui, dato appunto il tipo di modello di vita proposto, bambini e adulti spesso reagiscono con l’aggressività. Inoltre nei ranghi più bassi di queste gerarchie ci sono gli esseri più deboli e cioè, nella maggioranza dei casi, i poveri, le donne, gli anziani, i bambini e, in fondo a tutti, gli animali.

In genere, un individuo esercita violenza su un altro individuo che appartiene, nella scala sociale, ad un rango inferiore al suo. Questo spiega perché i bambini e gli adolescenti rivolgono spesso la loro aggressività sui compagni più deboli, sui fratelli più piccoli e sugli animali (ovviamente si tratta di animali che, nella situazione specifica in cui avviene la violenza, non possono costituire un pericolo per l’incolumità degli autori della stessa). I comportamenti crudeli verso le persone e verso gli animali non sono quindi da attribuirsi ad un sadismo o ad una aggressività innati, come spesso si sente dire, ma a specifici valori socioculturali, a modelli di comportamento che sollecitano determinate risposte, invece di altre, a certi stimoli.

Infine, se è giusto considerare con molta attenzione i casi di quei bambini che sono crudeli verso gli animali, è necessario considerare con altrettanta attenzione i casi di quei bambini che manifestano una profonda sensibilità verso gli animali. Nella nostra società questi bambini si trovano esposti a ferite e traumi continui, come quello descritto in una lettera a La Repubblica del 17 aprile del 1998:

Una breve testimonianza. Avevo 13 anni e mi fu regalato un agnellino. In quel periodo vivevo con i nonni in un grande giardino, qui a Napoli, e l’agnellino sembrava un cagnolino, mi seguiva ovunque. Poi venne Pasqua ed il nonno, incurante delle mie suppliche, fece la festa al povero animale. Per anni ho avuto l’incubo di ritrovarmelo davanti, per anni ho sentito in diverse occasioni, le urla dell’agnellino. Da quel giorno non mangio più carne.

È importante che gli adulti non soffochino e non appiattiscano la sensibilità e le capacità empatiche di questi bambini considerandole come un elemento conturbante ed “eccessivo” nello sviluppo della loro personalità. Gli adulti devono aiutare questi bambini ad affrontare gli aspetti negativi e crudeli del nostro mondo e far loro capire che attraverso la collaborazione e l’azione comune con le altre persone che condividono le loro idee e i loro sentimenti è possibile cambiare alcuni sentimenti e comportamenti nella società.


Interventi coordinati di prevenzione e cura


Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna si sta realizzando una collaborazione sempre più stretta tra gli operatori che si occupano della cura e della protezione degli animali e gli operatori che si occupano della cura e della protezione dei bambini, e in genere di tutti gli individui che sono oggetto di violenza. La collaborazione assume varie forme. Ad esempio, per queste due categorie di operatori vengono organizzati dei corsi sulla violenza nei riguardi sia degli animali che delle persone. In questo modo, gli operatori vengono addestrati ad individuare con maggiore sicurezza casi di abuso perpetrati nei riguardi sia degli animali che delle persone. Diventa quindi più facile, per un veterinario o per un operatore di un associazione animalista, allorché constatano segni di maltrattamenti in un animale domestico, rilevare l’eventuale presenza di maltrattamenti nei riguardi delle persone nella famiglia in cui vive l’animale e fare una segnalazione alle forze dell’ordine o ai servizi sociali (nello stato del Colorado questa segnalazione è obbligatoria per i veterinari). D’altra parte, diventa più facile anche per gli operatori sociali individuare eventuali casi di maltrattamento degli animali domestici in quelle famiglie in cui è presente l’abuso infantile e segnalarli alle autorità competenti (a San Diego in California, in particolare, nei casi di abuso infantile gli operatori sociali hanno l’obbligo di riferire sulle condizioni di salute e sul trattamento degli animali domestici di quelle famiglie).

Negli Stati Uniti viene sempre più spesso raccomandato ai magistrati e agli operatori che si occupano dei bambini e degli adolescenti che sono stati crudeli nei confronti degli animali di prendere in considerazione alcuni progetti che prevedono interventi psicologici mirati.

In alcuni di questi progetti è previsto che i ragazzi collaborino alla cura e all’addestramento di animali che non vivono in una famiglia e che sono in attesa di essere adottati. In altri progetti i ragazzi devono invece prendersi cura di animali da fattoria che sono stati abbandonati o maltrattati. Davidson (1998) scrive: <<Lo scopo di questi programmi è quello di promuovere nei bambini sentimenti di empatia ed aiutare quelli che hanno avuto terribili storie di abuso o di trascuratezza a provare un amore incondizionato e a prendersi cura senza alcun rischio di qualcuno diverso da loro stessi>>.

Molti studiosi, d’altronde, mettono in evidenza il fatto che, se è vero che atteggiamenti e comportamenti crudeli verso gli animali sono spesso associati ad atteggiamenti e comportamenti aggressivi verso le persone, può anche essere vero che atteggiamenti e comportamenti amorevoli verso gli animali possono generalizzarsi ed estendersi agli esseri umani.

Esistono negli Stati Uniti programmi educativi svolti come parte integrante del curriculum scolastico che hanno lo scopo di promuovere nei bambini atteggiamenti di rispetto e comprensione nei confronti della natura e degli animali in particolare. Anche in Italia è stato dato l’avvio a programmi di questo tipo e certamente esperienze del genere sono destinate ad allargarsi.

La ricerca psicologica sta ora cercando di verificare se tali programmi educativi siano in grado di sviluppare un rapporto più positivo, e quindi più profonde capacità empatiche, anche nei riguardi delle persone. I primi risultati ottenuti in questo tipo di indagine, che è solo agli inizi, sembra confermare questa ipotesi (Ascione e Weber, 1996).

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Gli animali e i bambini

Chi meglio di Mowgli, il cucciolo d’uomo, cresciuto dai lupi di Seeonee, può rappresentare l’intimo sodalizio che esiste tra il mondo dell’infanzia e quello degli animali? La fortuna di racconti come quello di Mowgli, o di Tarzan, è legata al fascino che l’infanzia selvaggia è in grado di esercitare tanto sui bambini quanto sugli adulti. La storia dei bambini selvaggi, cresciuti da animali in luoghi reconditi, è un miscuglio di realtà e leggenda che da sempre affascina l’essere umano. Un aneddoto del genere compare già nel De Bello Gallico, dove Procopio descrive un bambino-capra ritrovato nel 550 d.C.42. L’adulto guarda all’incontro d’infanzia ed animali con un misto di ammirazione e timore. Non è un caso che ancora oggi la figura del bambino selvaggio, ma sarebbe forse più corretto parlare di selvatico, sia in grado di suscitare tanto interesse. Il bambino-animale, il bambino-lupo se parliamo di Mowgli, il bambino scimmia, se parliamo di Tarzan, è “colui che attraversa l’oscuro confine tra diversità e normalità, che si sfuma, si stempera, si confonde nell’esorcizzare paure, nel creare sfere di contatto43. L’adulto utilizza il canale dell’incontro col selvaggio per abitare questo confine e non è un caso che gli atteggiamenti verso questi bambini, reali o presunti, oscillano tra l’accudimento, nei tentativi di renderli di nuovo normali, ed il disgusto. In quest’ultima accezione il bambino selvaggio equivale al bambino cattivo. Educarlo significa restituirlo per sempre al suo mondo, al mondo umano, adulto, razionale, ponderato, educato. E i bambini? Come vivono il rapporto con l’animale? Nel loro caso, questo legame si sviluppa su due versanti non precisamente distinti: quello reale e quello fantastico.

Il bambino entra in contatto con l’animale reale che abita il suo ambiente, il cane di casa, il gatto randagio o anche solo gli uccelli che si posano sui balconi, e contemporaneamente fa la conoscenza dell’animale fantastico, protagonista di infiniti racconti per l’infanzia. Dai grandi classici, il gatto, la volpe e il grillo di Pinocchio, fino ai moderni film d’animazione, Il re Leone, La gabbianella e il gatto, l’animale rappresenta “l’accesso privilegiato al mondo sovrannaturale44”, non tanto e non solo perché possiede poteri straordinari ed ovviamente sa parlare, ma soprattutto perché introduce in un universo irrazionale e fantastico, dove trovano posto tutte le pulsioni emotive che la condizione adulta tende ad allontanare.

Lo straordinario potere della figura animale risiede soprattutto nel fatto che non è solo l’animale fantastico a sollecitare l’immaginazione del bambino ma soprattutto quello reale, quello vero con cui molti bambini hanno la fortuna di crescere e di condividere del tempo. Tanto quanto l’adulto utilizza l’animale come sfondo su cui stagliarsi per cogliere le differenze, tanto quanto il bambino ne fa uno scenario in cui immergersi, non tanto per identificarsi completamente, ma per ri-conoscersi. L’animale rappresenta un referente educativo45 molto importante nell’infanzia proprio perché aiuta e facilita quel processo di identificazione e scostamento che porta allo sviluppo di una personalità completa. “I bambini avvertono immediatamente la comunanza che lega il mondo degli animali alla loro realtà e viceversa, la forte differenza che li separa dal mondo degli adulti46”, tuttavia imparano presto che non sono del tutto simili agli animali. Lo sviluppo del legame affettivo con l’animale ha bisogno di alcuni “paletti strutturali” entro cui svilupparsi, che solo l’adulto è in grado di definire. Il rapporto con l’animale “non può essere e non deve essere, ad esempio, il surrogato di altre presenze indispensabili per una crescita integrale. Il bambino ha bisogno di uno spettro molto ampio di referenti47” e non è pensabile attribuire all’animale il ruolo di sostituto: “il rischio è infatti quello di diseducare il bambino nel rapporto con l’animale, ovvero spingerlo verso la reificazione dell’animale o l’antropomorfizzazione48”. L’animale è anche, nella sua diversità, dizionario di modelli49, osservando i quali il bambino amplifica la sua fantasia e capacità immaginativa, grazie alle quali viene educato all’attenzione e all’interpretazione, “nel senso di affinare sia la propria capacità di comprensione, sia la disposizione a mettere in relazione e considerare i segnali provenienti dalla natura come qualcosa che reca in sé un significato50. L’aspetto più affascinante di questo rapporto, che pure implica conseguenze cognitive e psicologiche, è la capacità di mantenere in sé gli stessi elementi magici che il bambino ritrova negli animali dei racconti fantastici. Senza per questo affermare che tutti i bambini siano fortemente convinti che il proprio cane sappia segretamente parlare la lingua degli uomini, il rapporto con l’animale rappresenta quell’altrove esistenziale51dove è possibile che anche questo si verifichi. In una sorta di gioco del “far finta”, il bambino parla con l’animale, ragiona con lui su argomenti salienti ed interpreta le sue risposte alla luce di convinzioni che si faranno via via più razionali col procedere dell’età. Tracce di “irrazionalità” infantile permarranno tuttavia anche nella vita adulta; moltissimi adulti “confessano” infatti di parlare ancora coi propri animali domestici come se da un momento all’altro questi dovessero rispondere loro nella medesima lingua. Conservare queste “nicchie” di irrazionale è un esercizio salutare non solo per quella parte di irrazionalità che ogni uomo dovrebbe conservare, ma anche per continuare a produrre riflessioni nuove, magari sospese tra il serio e l’assurdo, sul nostro rapporto con gli animali in particolare, e con le altre forme di alterità.

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1 Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder

2 International Classification of Mental and Behavioural Disorders

3 La Repubblica, 25 maggio 1998

4 C.Pagani, svolge attività di ricerca presso l’Istituto di Psicologia Del Consiglio Nazionale delle Ricerche. È stata psicopedagogista nella scuola secondaria rd ha condotto ricerche nel campo della linguistica applicata, degli atteggiamenti nei riguardi della morte, dell’educazione alla salute, dell’aggressività e del rapporto bambino-animale. Attualmente collabora con al “Progetto per la diffusione della Dichiarazione di Siviglia sulla violenza” dell’Istituto di Psicologia del Consiglio Nazionale della Ricerche, nell’ambito del quale svolge anche attività di formazione per gli insegnanti sulle tematiche dell’educazione contro la violenza.

5 A.R. Felthous, e S.R Kellert, Childhood cruelty to animals and later agrssive against people: A review. American Journal of Psychiatry 1987

6 L.Broun, Cruelty to animals: The moral debt London: Macmillan. 1988.

7 H.Vermeulen, J.S.J. Odendaal, A typology of companion animal cruelty. 1992

8 F.Ascione, Children who are cruel to aniamals: a eview of researc and implication for development psycopathology, The biennal meeting of the Society for Researc in Child Development, 25 Marzo 1993, New Orleans.

9 A.Arluke, The ethical cultures of animal labs. 1992

10 E.Fromm, The anatomy of human destructiveness. New York 1973

11 R.V. Krafft-Ebing, Psycopathia sexualis, rev. Ed., 1934 Brooklin, NY: Physicians and Surgeons Book Company 1906.

12 S.Ferenczi, Sex in psycho-analysis. Boston: Richard G.Badger, the Gorham Press 1916.

13 B.Bettelheim, Truants from life. NY: The Free Press 1955.

14 F.Redl, D.Wineman, Children who Hate. NY: The Free Press 1951.

15 F.Tapia, Children who are cruel to animals. Child Psychiatry and Human Development1971

16 J.D.Ringdon, F.Tapia, Children who are cruel to animals-A follow-up study. Journal of Interpersonal Violence 1977

17 A.R.Felthous, Agression against cats, dogs and people. Child Psychiatry and Human Devlopment 1980.

18 S.R.Kellert, A.R.Felthous, Childhood cruelty toward animals among criminals and noncriminals. Human Relations, 1985

19 A.R.Felthous, B.Yudowitz, Approaching a comparative typology of assaultive female of-fenders. Psychiatry 1977

20 R.K.Ressler, A,W.Burgess, C.R.Hartman, J.Douglas, A.McCormack, Murderers who rape and mutilate. Journal of Interpersonal Violence 1986

21 D.Tingle, G.W.Barnard, L.Robbins, G.Newman, D.Hutchinson, Childood and adolescent characteristics of pedophiles and rapistts. International Jornal of Law and Psichiatry 1986

22 E.Hickey, Serial Murderers and their victims, Belmont, CA: Wadsworth 1991

23 D.Luwes, S.S.Shanok, M.Grant, E.Rivo, Homicidally aggressive young children: Neuropsichiatryc and experiential correlates; American Jouenal of Psychiatry 1983

24 M.Wochner, G.Klosinski, Children and adolescents with psychiatric problems who misteat animals. Schweizer “Archiv fur Neurologie und Psychiatrie” 11988

25 T.Grandin, Behavior of slaughter plant and auction employees toward animals. 1988

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27 C.Moulton, M.Kaufmann, J.Filip, Cruelty to aniamls and child abuse: Connection and creative communnity strategies, Sixth International Conference on Human-Animal Interaction, Montreal, Canada. 1992

28 F.Ascione, Cruelty to animals in childhood and adolescence: An overview of research: Presentation at the “Risks for Animals Workshop”. July 1992

29 F.Ascione, Cruelty to animals in childhood and adolescence. Presentation at the American Human Association Conference. “Protecting children and animals: Agenda for a nonviolent future”, september 1992

30 F.R.Ascione, Fainal reporton the project entitled <Animal welfare and domestic violence> 1997

31 W.Friederich, (1992), (comunicazione personale), citato in Ascione (1993), Children who are cruel to animals: A review of research and implication for developmental psychopatology, < Anthroos>, VI, 226-247

32 J.Douglas ha lavorato per venticinque anni nell’FBI, attualmente continua la sua opera come consulente. Laureato in psicologia è divenuto il maggiore esperto mondiale di analisi della mente criminale. È coautore di alcuni fondamentali testi di criminologia sugli omicidi a sfondo sessuale e sulla classificazione dei delitti.

33 J.Douglas, Mind Hunter, Euroclub 1997, cit da p. 93 a p. 101

34 idem cit. p. 113

35 idem cit. p. 209

36 idem, cit. p. 213

37 R.Marchesini, Natura e Pedagogia, Theoria, Roma 1996

38 Pagani, C. Il rapporto bambino-animale e il problema della violenza. In R. Marchesini, Bioetica e professione medico-veterinaria. Cesena (FO): MACRO Edizioni, 1999.

39 Pagani, C., Bambini che maltrattano gli animali, apparso nella rivista Psicologia contemporanea, 1999.


40 Ascione, The abuse of animals and human interpersonal violence: Making the connection. In Ascione e Arkow, Childe abuse, domestic violence, and animol abuse; Linking the circles of compassion for the prevention and intervention, West la Fayette, IN, Purdue University Press.

41 R.Marchesini, Natura e Pedagogia, Theoria, Roma 1996

42S.Ulivieri (a cura di), L’educazione e i marginali. Storie, teorie, luoghi e tipologie dell’emarginazione, La Nuova Italia, Firenze 1997, op. cit. p. 147

43 Idem

44 R.Marchesini, S.Tonutti, Animali magici. Simboli, tradizioni e interpretazioni, op. cit. p. 47

45 Ivi p. 49

46 Ivi p. 50

47 R.Marchesini, Natura e Pedagogia, op. cit. p. 142

48 Idem

49 R.Marchesini, S.Tonutti, Animali magici. Simboli, tradizioni e interpretazioni, op. cit. p. 49

50 Idem

51 Ivi p. 51

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